di Giuseppe (Pino) Romeo
Siamo sprofondati rapidamente in un racconto parossistico, diventati protagonisti di un dramma che ci ha presentato il conto facendoci provare l’ebbrezza di una deriva quasi paranoica con la quale non credevamo di fare i conti. Eravamo sicuri del nostro vissuto, pienamente certi che il merito fosse una qualità accessoria e, per questo, da tempo non albergava più nella nostra cultura postconsumistica e semplificatrice di ogni valore, anche politico, oltre che etico e morale.
di Giuseppe (Pino) Romeo

Siamo sprofondati rapidamente in un racconto parossistico, diventati protagonisti di un dramma che ci ha presentato il conto facendoci provare l’ebbrezza di una deriva quasi paranoica con la quale non credevamo di fare i conti. Eravamo sicuri del nostro vissuto, pienamente certi che il merito fosse una qualità accessoria e, per questo, da tempo non albergava più nella nostra cultura postconsumistica e semplificatrice di ogni valore, anche politico, oltre che etico e morale. Siamo stati pubblico plaudente di una televisione da mercato che tutto ha promosso, e promuove ancora, tranne che la cultura del nostro essere italiani, l’impegno, il sacrificio di molti giovani cui è stato impedito con norma da numero chiuso di realizzare sogni e progetti, mentre si sono favoriti artisti di dubbia qualità, ma istruiti da scuole per celebrità. Ci siamo affidati alle funamboliche  analisi degli anchorman di turno, di coloro che vivendo dei loro luoghi comuni, al riparo dei diversi salotti televisivi, hanno preteso di assumere le vesti di politologi, di censori o di vati. Abbiamo sostituito l’impegno con la ricerca del facile edonismo del successo, con quella visione estetica della vita che ha capovolto ruoli e capacità, che ha premiato un calcio, per carità!- ben dato, ad un pallone piuttosto che una vita di scienza, di studi, di abnegazione verso l’altro.

In questa società senza controllo delle proporzioni, ostaggio di un marxismo digitale e di un neoliberismo economico suicida, è franata sulla paura di un nemico invisibile l’illusione di una cultura di onnipotenza dei servizi e dell’efficienza. Si è dissolta la ragione aziendalistica del risparmio manageriale, evaporata ogni possibile panacea a tutti i mali delle anime perse da ricercare nella rete e in quella comunicazione olografica che manipola coscienze cercando di affermare un pensiero unico, emarginando ogni partecipazione critica. Abbiamo vissuto una società nella quale un seppur valido intrattenitore di piazze si è trasformato in uno statista anch’egli pontificando valori e soluzioni salvo poi abiurarle. Condiviso un’Italia dove chi, già precedendo il menestrello della New Age pentastellata, facendo mercato invece di riformare un Paese in vent’anni di maggioranze, è stato così abile da creare le premesse per il successo dei suoi stessi avversari, mortificando molti italiani e italiane pronti all’impegno, ma non dotati del make-up e del look patinato gradito al padrone-partito. In questa Italia che dovrebbe abbandonare il nepotismo e provincialismo che ha superato anche i tempi delle Signorie, ci siamo affidati, per salvarci, al paradigma della paura. Quel paradigma che già per Orwell rappresentava nel suo 1984 null’altro che lo strumento più adatto a legittimare un’autorità, per garantirle un consenso fondato sull’ansia e l’angoscia di un pericolo.

Ci siamo trasformati in psicopoliziotti cercando l’untore quasi come se fosse lui a dover pagare il prezzo di un dramma che non ha né voluto né creato, ma neanche sapendo se questi fosse untore conclamato piuttosto che un cittadino che tornava a casa, magari da una moglie, una mamma dopo aver perso il lavoro o solo per paura di non sentirsi al sicuro. Abbiamo lasciato all’imbarco uomini, donne e bambini credendo che chiudere le porte ad un virus significasse salvezza, e invece siamo diventati prede del virus della delazione, magari inneggiando sugli scranni dei social, ad un Grande Fratello che ci possa aiutare. Ad un controllo e una sorveglianza a cui affidare le nostre vite accettando, per paura, l’abbattimento di ogni garanzia e attribuendogli, distopicamente, doti taumaturgiche dimenticando che la cura migliore alla nostra vita dovremmo ricercarla anzitutto in noi stessi, nella nostra responsabilità, e non in una delle tante, numerose, ordinanze. Abbiamo rischiato, e forse potremmo cadervi nell’errore, di sentirci vittime di un’emergenza permanente, quasi uno stato di guerra che matura in un rituale tipicamente orwelliano per il quale, ancorché virtuale o meno, un nemico anche se invisibile può servire a compattare l’opinione pubblica carpendone il consenso sulle scelte di un’autorità in difficoltà che non gradisce che il cittadino possa andare oltre la verità rappresentata. Per questo, la narrazione dei primi mesi di quest’anno rimarrà nella storia e nelle coscienze di ognuno di noi.

Ma l’Italia di domani dovrà ricordarsi anche che dagli anni Sessanta ad oggi ha politicamente escluso due generazioni che avrebbero potuto cambiare gradualmente il Paese, garantendone il passo con i tempi. Un abominio politico che  ha fatto sì che l’Italia rimanesse impantanata negli anni nelle paludi di una classe politica che non ha mai voluto tirarsi indietro, ancorata alle rendite di partito e di leadership. Ad essa, nella convinzione di avere numeri e capacità per sostituirvisi, in nome dello sdoganamento generazionale si è sostituita l’imperizia di una classe di avventurieri che in nome dell’apparente democrazia del web, ma promotori di una malcelata dittatura digitale messa in campo attraverso una piattaforma senza contradditorio, ha disarmato ogni confronto censurandolo, questo, per mezzo di una convinzione di verità che spesso è sconfinata nella supponenza. Una novità, che nulla ha portato di nuovo se non retrocesso ciò che è sopravvissuto della civiltà giuridica di un Paese in affanno, o di una politica economica e internazionale anch’essa rimasta nel ricordo di una Prima Repubblica per certi versi più dignitosa.

E allora ecco che per non rischiare di dichiararci palesemente sconfitti, paure ed ansie nonostante, l’Italia dopo il Covid-19 dovrà essere un’Italia che riconquista se stessa, che comprenda il valore del merito, della conoscenza, dell’impegno. Un’Italia che cercherà di trovare un punto di ripristino condiviso dal quale ripartire: impresa non facile, ma possibile. Un’Italia che richiederà persone normalmente straordinarie e non più apprendisti stregoni o prodotti di happening di circostanza, leoni da tastiera o da riti digitali, o legittimati dalla piazza virtuale della quale lo stesso filosofo francese cui è ispirata, se potesse, impedirebbe l’uso del proprio cognome perché contraria nei presupposti ideologici alla sua stessa filosofia. Bandire l’elogio dell’ignoranza, denunciare la distruzione del sapere a vantaggio di un senso estetico della vanità televisiva, condannare il disprezzo dell’impegno e del sacrificio nascosto nei messaggi subliminali del successo veicolati da un sistema mediatico che ha mercificato ogni aspetto delle nostre vite rappresentano le sfide del nostro futuro.

Si tratterà, allora, di guardare con diffidenza a chi ci ha fatto dimenticare il valore delle parole merito, motivazione, modestia. A chi ha impedito l’affermarsi di una mistica laica delle tre M che non ci appartiene da tempo, valori dimenticati nell’alveo di una società che ha assunto a mito l’ego e a ragione di vita quel facile successo non derivato da una vera, consapevole, conquista attraverso l’espressione di capacità e abilità. Ripristinare il significato di merito, motivazione e modestia significa far sorgere dalla condizione di macerie semantiche termini attraverso i quali si dovrà raggiungere la vittoria della cultura della sostanza sulla celebrazione dell’effimero, sconfiggendo quella forma consacrata all’opportunismo dilagante che imperversa nei meandri della mediocrità del sistema.

Ma non solo. In questa resa dei conti che sarà generazionale e tendente al riscatto dei veri esclusi dalle presunte e disastrose novità, si tratterà di colmare per quanto possibile un buco generazionale costruito sull’esclusione dei meno giovani per chi ha pensato che fosse il momento di emulare una sorta di rivoluzione culturale veteromaoista, senza affacciarsi allo specchio della storia spiegando a chi è servita davvero, di certo non ai giovani cinesi, e senza cipire – sarebbe stato pretendere troppo – che il fallimento non risiedeva solo nel colore del libretto, rosso per loro e verde per noi.  Per l’Italia si tratterà di porsi sul bordo di un orizzonte degli eventi e  decidere cosa mantenere del suo passato e  cosa riporre nel cestino della storia. Si tratterà di superare ogni mediocrità, abbandonare ogni concetto di una funzionale ignoranza, evitare che si affermino pensieri unici al servizio di chi costruisce carriere senza pensare che è e resta un servitore di un padrone senza nome che è l’Italia. Personaggi che credendo di essere i promoter di se stessi, sfruttando posizioni, ruoli e funzioni che lo Stato gli attribuisce, giocano, purtroppo, con le vite di ogni cittadino cui vanno riconosciute le garanzie costituzionali: dal diritto alla salute come alla giustizia, queste ultime ormai molto spesso dimenticate, se non violate senza replica alcuna.

L’Italia che verrà non potrà più dare quartiere al culto della mediocrità di sistema, quella che non deve fare ombra al potente di turno, quella che si nasconde dietro – come afferma Alain Deneault nel suo La médiocratie, (2015)  – quello stadio medio  tendente al banale, all’incolore  e (di cui) la mediocrazia è di conseguenza lo stato medio innalzato al rango di autorità, dietro l’elogio del conformismo ideale per il mantenimento del potere. E, questo perché, per parafrasare Tom Nichols (The Death of Expertise: The Campaign Against Established Knowledge and Why It Matters – 2017) altro autore puntuale e mai così tempestivo nell’era dell’aziendalismo e del politicamente mediocremente corretto, l’era dell’incompetenza diventa il nuovo rischio, la nuova minaccia per qualunque ordine democratico. Perché, come ricordano Steven Levistsky e Daniel Ziblatt (How Democracies Die – 2018), anche le democrazie muoiono sul fronte della mediocrità, dell’incompetenza degli estremismi di cui oggi sovranismi e populismi diventano le migliori espressioni di radicalismi pericolosi e diretti verso il fascino di un’autocrazia mascherata dalle comode ragioni e utili paure di un pericolo permanente.

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