di Emanuele Schibotto e Francesco Tajani

In occasione dell’insediamento del nuovo Governo Letta e del nuovo Ministro degli Esteri appare utile una breve considerazione sulle azioni di politica estera da intraprendere per poter accrescere il ruolo internazionale dell’Italia partendo da una semplice quanto provocatoria domanda: l’Italia è una potenza globale?

 

A livello economico, non vi è dubbio che la risposta sia positiva. A dispetto di una crisi duratura e di tante cassandre, l’Italia rimane la seconda potenza manifatturiera d’Europa, la terza economia dell’Eurozona, il settimo esportatore al mondo. Lo si deve alla solidità di un modello industriale che, forte del capitale umano dei lavoratori e della creatività di molti imprenditori, riesce a districarsi nella selva amministrativa e fiscale che minaccia di condizionarne negativamente le prestazioni.

Sul piano politico, per converso, l’Italia odierna non solo sconta la tradizionale incapacità di influenzare l’agenda internazionale (l’illusione di contare ci era data dallo schema geopolitico della Guerra Fredda), ma si presta inoltre ad una preoccupante doppia marginalizzazione a livello europeo: la prima, quella di Roma all’interno del Vecchio Continente, malgrado i tentativi ripetuti di creare e alimentare assi decisionali alternativi rispetto a quello franco-tedesco (si veda la ritrovata sinergia con l’Eliseo, capace, seppur a fasi alterne, di mettere in discussione la strategia rigorista di Berlino); la seconda, quella dello stesso consesso europeo a livello globale.

Sprovvisto di un seggio permanente all’interno del Consiglio di Sicurezza ONU, schiacciato in Europa dal “motore” franco-tedesco e dalla presenza del Regno Unito, osservato speciale dagli investitori finanziari internazionali per lo spettro (ancora dietro l’angolo) del possibile default, in realtà il Paese ha diverse carte da giocare per riprendere il posto che merita in Europa e allo stesso tempo aumentare il proprio peso specifico nel mondo. Primo, sfruttare molto meglio la leva offerta dal suo soft power, per il quale l’Italia gode di un vantaggio competitivo rispetto a Paesi concorrenti. Secondo, rinsaldare il partenariato con gli Stati Uniti, a tutt’oggi ancora la prima economia mondiale e la sola Superpotenza. Terzo, riprendere il (fallimentare) progetto francese dell’Unione del Mediterraneo, farlo proprio e riconfigurarlo in maniera efficace. Quarto, farsi portatore in seno all’UE delle istanze dei Paesi scontenti dalla leadership franco-tedesca, creando un’alleanza strategica. Quinto, spingere le relazioni con i Paesi chiave, a livello geo-politico e geoeconomico, degli anni a venire: Turchia, Russia e Cina, ma anche Serbia, Arabia Saudita, Vietnam, Indonesia e Corea del Sud.

In particolare, bisogna puntare sul soft power per ovviare alle carenze della politica estera tradizionale, implementando azioni coordinate ed eliminando un’ormai inaccettabile dispersione di risorse ed attività. Da una parte, ci sono quadranti geografici nei quali il nostro Paese è presente con le proprie rappresentanze istituzionali, senza benefici per l’economia, in termini di facilitazione delle esportazioni e consolidamento di canali commerciali. Si pensi all’Asia Centrale, dove allo sforzo profuso con la partecipazione alle missioni internazionali non si è accompagnata una penetrazione commerciale proporzionale, al netto di alcune iniziative dell’ENI in Kazakistan. Dall’altra, esistono aree del mondo in cui gli imprenditori italiani operano senza alcun concreto sostegno da parte degli organi pubblici a ciò preposti: i pur lusinghieri risultati raggiunti nell’export potrebbero essere ben diversi se sostenuti da un’adeguata pianificazione delle politiche pubbliche di promozione. Il governo Monti e quello precedente, già nel 2009, hanno intrapreso la strada in salita della razionalizzazione degli enti dedicati ad assistere le imprese, dall’ICE alla Simest alla SACE. Per il momento, però, la riorganizzazione è lungi dall’aver generato benefici.

Bisogna poi riaffermare la centralità degli Stati Uniti nella politica di alleanze strategiche e tattiche. Non sempre, è chiaro, gli interessi della Casa Bianca combaciano con quelli italiani né, su più vasta scala, con quelli dell’Unione Europea. Ciononostante, l’asse costruito con la Casa Bianca rappresenta uno dei punti cardinali della politica estera italiana. Non si tratta di condividere o meno un insieme di valori, di usi e costumi, di sistemi politici ed istituzionali, quanto di prendere atto che, per oltre sessanta anni, la politica di difesa è stata concertata con gli Stati Uniti, se non addirittura delegata oltre Atlantico. Con qualche necessario distinguo, questo vale anche per gli altri Paesi europei, Germania in primis. Oggi il terreno è più sdrucciolevole, e Washington, mentre riorienta le proprie scelte strategiche (a partire dalla dislocazione delle proprie truppe), punta l’indice contro lo scarso apporto finanziario degli europei al buon funzionamento della NATO. Per Roma rinsaldare l’alleanza con gli americani risponde anche all’obiettivo di controbilanciare le pretese egemoniche di Parigi e Berlino, che ciclicamente mettono a repentaglio la posizione italiana in seno alla UE.

In terzo luogo, a questa opzione strategica si lega un’altra potenziale linea conduttrice della politica estera: porsi alla guida di uno schieramento, anche formale, dei Paesi dell’Europa meridionale. Questi ultimi sono portatori di proprie specificità culturali, economiche e sociali minacciate dalla centralizzazione delle decisioni operata dal governo tedesco e celata sotto le mentite spoglie dell’Unione Europea. Unione Europea che, d’altra parte, mette la testa sotto la sabbia quando in gioco ci sono questioni rilevanti come i flussi migratori, la sicurezza dei confini e la difesa delle produzioni locali di qualità, temi che i Paesi dell’Europa centro-settentrionale non riconoscono come prioritari. Da Atene a Madrid, da Lisbona sino a Roma, la necessità di battere i pugni sul tavolo si scontra con lo scarso peso relativo dei singoli governi, che uniti potrebbero però far leva sul proprio ruolo economico e politico comune.

Seguendo questa rotta si potrebbe perseguire un altro obiettivo di lungo periodo. Dalla costruzione di un’asse mediterraneo può iniziare un percorso di riavvicinamento ai Paesi della sponda sud ed est, le cui vicissitudini si riverberano pesantemente sui Paesi europei di frontiera, che scontano la contiguità geografica con uno dei teatri geopolitici più instabili e irrequieti del mondo.

Quinto ed ultimo punto, non in ordine di importanza, la spinta alle relazioni con i Paesi chiave, a livello geopolitico e geoeconomico, degli anni a venire: dalla Turchia alla Corea del Sud, passando per la Cina. In questi Paesi e nelle rispettive aree l’Italia non può non essere presente, elaborando ed attuando strategie ad hoc, modulate sulle peculiarità di ogni scenario.

La grande esperienza politica e la profonda conoscenza delle dinamiche internazionali da parte di Emma Bonino – doti rimarcate peraltro dal Ministro uscente Terzi – sono le premesse indispensabili per dotarsi di un capo della diplomazia che comprenda l’importanza della posta in gioco: garantire all’Italia il posto nel mondo che la storia e la cultura le riservano, assicurandole sicurezza, indipendenza, stabilità e prosperità.

 

Considerazioni tratte dal libro “Italia, potenza globale” (Fuoco Edizioni, 2012) di cui gli autori sono co-curatori.

 

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