di Davide Ragnolini
Ottant’anni fa Carl Schmitt, nella sua relazione sul “concetto discriminatorio di guerra” tenuta all’Akademie für deutsches Recht, poneva in stato di accusa una gigantesca torsione cui veniva sottoposto il diritto internazionale contemporaneo. Il diritto di guerra che gli Stati sovrani erano intitolati a poter esercitare tra loro a partire dalla prima modernità – e precisamente, secondo la vulgata, almeno dopo il loro ‘battesimo’ di Vestfalia (1648) – veniva loro “sequestrato” da nuove istituzioni sovrastatali e sovranazionali.
Con l’apparizione della Società delle Nazioni – sembrava ammonire il giurista tedesco – gli Stati venivano posti in una sorta di “stato di minorità”. Certo la guerra, come fenomeno politico e giuridico, non si estingueva affatto. Se si doveva fare, doveva essere legittimata dall’autorizzazione di attori non statali; se si doveva dichiararne la legittimità, allora se ne avrebbe dovuto vagliare le nuovi ragioni morali di una justa causa, e non l’obsoleto status giuridico di iusti hostes statali, tra loro pari.
Molto si è scritto su questa lettura polemica della contemporaneità giuridica, registrando da più parti come l’intero dibattito presente sulla “responsability to protect” (R2P), e sugli sforzi per renderlo cogente mediante le istituzioni del XXI secolo, sia analogo a quello che giustificava una potestas indirecta tra i prìncipi cristiani del XVII secolo.
Meno si è detto, però, su alcune figure “precorritrici” di questo dibattito, sempre che di “precorritori” nella storia del diritto internazionale, come ci ha già ammonito Marti Koskenniemi, si possa parlare. Ma meno remore storiografiche ebbero invece i giuristi di inizio XX secolo. Agli albori della Lega delle Nazioni, proprio la ricerca e il programma editoriale di Jason Scott Brown, una figura simpatetica con l’internazionalismo giuridico dominante che presiedeva la stessa Lega, portò alla luce una Spanish Origin of International Law, e assieme a questa, la collana dei Classics of International Law.
In questa galleria di Classics certamente spiccò il nome del gesuita Francisco Suárez (1548 – 1617), il doctor eximius della Scuola di Salamanca, che con la sua riflessione teologica sulla guerra pose una pietra miliare nella storia dell’etica dello ius belli. All’interno della sua vasta Opera omnia che comprende 23 volumi, si trova infatti un trattato intitolato De triplici virtute theologica, pubblicato postumo, che tra le sue numerose Disputationes contiene al suo interno un contributo seminale sul diritto di guerra: si tratta del De bello.
Che i teologi si occupassero del diritto di guerra è un fatto antico quanto i commentari biblici; che questi tentassero di argomentare i criteri di una “guerra giusta” secondo la condotta cristiana, come è altrettanto noto, è una questione filosofica che risale ai tentativi di Agostino di distinguere la guerra dal latrocinio. Il tentativo di condurre una riflessione sullo ius belli formalmente più restrittivo della riflessione agostiniana – come ha suggerito David Boucher nel suo The Limits of Ethics in International Relations (2009) – lo dobbiamo a Tommaso d’Aquino. La Seconda Scolastica spagnola, tuttavia, ben lungi dal costituire un momento epigonico della Prima Scolastica, fornì altre ulteriori risposte al problema della guerra e della pace nella prima modernità. In un momento in cui il Siglo de Oro spagnolo volgeva al termine, la pace con l’Inghilterra del 1604 e la tregua olandese del 1609 sancivano la forzata rinuncia dell’aspirazione di Madrid alla “monarchia universale”. In luogo di una pace europea, l’ombra di un’età del ferro (Aetas ferrea) delle guerre religiose si profilava sulla respublica christiana europea.
Su questo sfondo, tanti elementi compongono il mosaico barocco dello ius gentium di Suárez: la sottile difesa del potere indiretto del papato in Europa; l’apologia dell’impiego della forza per difendere gli innocenti; la sintesi tra legge evangelica e legge naturale nel giustificare il diritto naturale alla difesa della propria persona e dei propri beni; il rigetto della concezione di guerra dei “gentili” e l’affinamento dei crismi morali e giuridici cristiani per condurla; e parimenti, ancora, la difesa dello strumento di arbitraggio nelle contese tra nazioni.
Ma in che misura un simile pensatore, distante sia dal Basso Medio Evo che dalla contemporaneità, non ha cessato di sopravvivere come un classico del pensiero internazionalistico? Per Suárez, come del resto per molti suoi predecessori scolastici, la nozione di “guerra giusta” non era affatto un ossimoro – come avrebbe potuto apparire ad anabattisti, erasmiani, o ancora a pacifisti radicali – perché essa non è ipso facto ingiusta: il diritto naturale legittima, anzi, il potere di difendersi da un’aggressione ingiusta. Per la repressione degli attori ingiusti la guerra può assurgere a strumento di giustizia e punizione, mutando il fine dell’offesa in quello della difesa. Un grande adagio a cui tutti i giuristi più ‘classici’ conformavano la propria opinione era che non vi potesse essere guerra giusta che non sia condotta per la difesa. E proprio attorno allo spinoso concetto di “difesa”, come del resto presagì Alberico Gentili nel suo De iure belli libri tres (1598), si sarebbero combattute battaglie libresche sullo ius ad bellum.
Oggi, come ieri, la giustificazione della guerra è ancora imperniata attorno all’estensione semantica e all’intensità morale di una causa “difensiva”, invocata quale titolo necessario per l’esercizio dello ius belli. La riflessione di Suárez offre in tal senso un modello paradigmatico a questo problema teorico e giuridico. Se la monarchia spagnola, benché declinante, era percepita come attore in grado di fornire, come ha suggerito Franco Todescan, “una missione imperiale e sopranazionale” di difesa del cattolicismo europeo, mutatis mutandis l’Occidente contemporaneo ha costruito l’apologia giuridica della guerra sulla difesa dei ‘diritti umani’. Ancora oggi, come ieri, per fondare teorie etiche della guerra occorre rigettare l’idea che il diritto allo ius belli possa essere esercitato contemporaneamente da parte di entrambe le parti in conflitto: secondo Suárez sarebbe “absurdissimum” ammettere l’ipotesi giuridica di un duello legittimo tra Stati sovrani, “poiché due diritti contrari non possono essere giusti simultaneamente”. Altrettanto “assurda e crudele” (barbarus et absurdum) per Suárez era l’idea che la guerra soltanto fosse l’unica forma di risoluzione possibile concessa dal Creatore ai sovrani per dirimere le controversie internazionali. Il rigorismo morale del gesuita non cedeva il passo alla razionalizzazione giuridica della guerra moderna, che con Raffaele Fulgosio, François Connan, Andrea Alciato e Gentili ambiva a riconoscere ogni Stato come pares in bellum, secondo una rivisitata tradizione giuridica romana.
Dunque una parte in conflitto può, anzi deve, aver torto. Il teologo che, come ammonisce Suárez nel proemio del suo Tractatus, ha il compito di escludere ogni motivo di stupore nella propria indagine, certo non si deve sottrarre dall’individuare i criteri di una “guerra giusta”. Da Campanella a Émeric Crucé, da Kant a Schelling, i filosofi pensarono ad architetture istituzionali diverse per stabilire la pace, dalla monarchia universale all’assemblea dei sovrani, dalle federazioni di popoli allo schellinghiano “areopago universale dei popoli” (“Allgemeiner Völkerareopag”).
Ma quali strumenti, nella prospettiva del teologo spagnolo, per dichiarare una “guerra giusta”, quindi la possibilità della pace? In primo luogo l’istituzione politica papale, che serviva quale arbitro ad “evitare mali quasi infiniti” tra prìncipi cristiani, e in secondo luogo una grande, suggestiva finzione giuridica: “anche se supponiamo che gli Stati non abbiano un superiore riconosciuto da tutti” – argomentava Suárez nel De bello, recentemente tradotto da Aldo Andrea Cassi – è necessario supporre esista il potere di punire le ingiurie di uno Stato, e tale potere “deve risiedere nel principe sovrano dello stato ingiuriato” (p. 43), dimodoché questo sia riconosciuto da tutti nella propria causa di giustizia. Se la prima condizione appare certamente obsoleta, dalla seconda ipotesi argomentativa scaturisce una longeva logica della “guerra giusta”, che trascende tanto il tempo quanto la forma barocca della sua formulazione.
Pronunciata a Roma tra il 1583 e il 1584, la pubblicazione del De bello in lingua italiana risale soltanto a tre anni fa. Similmente, l’altra sua grande opera, il capolavoro scolastico Tractatus de legibus ac Deo legislatore (1613), in Italia ha avuto un trattamento editoriale simile, cioè tardivo. Fortunatamente, il tempo dei classici non è imposto dall’editoria ma, come si dice, è senza tempo.
* Ph.D Candidate – Consorzio Filosofia del Nord Ovest (FINO) – Università degli Studi di Torino
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