di Alessandro Campi

Si parla di riformare la legge elettorale, di riscrivere i regolamenti parlamentari, di mettere mano a significativi cambiamenti costituzionali (riduzione del numero dei parlamentari, fine del bicameralismo perfetto, rafforzamento dei poteri della Presidenza del Consiglio). Tutte cose che, se realizzate, dovrebbero servire, tra l’altro, a ridare smalto ai partiti, dei quali – stando ai sondaggi – solo il 4% degli italiani ormai si fida.

In realtà, i partiti una sola cosa dovrebbero fare per guadagnare nuovamente di credibilità, ma a quanto pare non ne hanno alcuna intenzione: revisionare da cima a fondo il meccanismo che attualmente regola i rimborsi elettorali: la vera origine del disincanto e del malessere che rischia prima o poi di travolgerli (per la seconda volta).

Scoppiato il “caso Lusi” – il tesoriere della Margherita che coi soldi del finanziamento pubblico si è comprato, a quanto pare, case e ville, oltre a concedersi cene luculliane insieme agli amici – l’occasione sembrava propizia per affrontare una questione divenuta con gli anni a dir poco imbarazzante e potenzialmente esplosiva: i troppi soldi che i partiti introitano e che, stante l’attuale legge, possono spendere a piacimento e senza controlli. E invece niente. Si sbraita, ci si scandalizza, si urla al latrocinio, si invoca l’intervento della magistratura, ci si accusa reciprocamente, ma è chiaro – al netto delle chiacchiere – che nessun partito (dicasi nessuno) è disposto a rinunciare alla manna dei rimborsi.

Il finanziamento pubblico, come si ricorderà, fu introdotto nel 1974 (col solo voto contrario del partito liberale di allora). Doveva servire a rendere autonomi i partiti dai condizionamenti del potere economico e a moralizzarne la condotta. Ma si è visto come è andata a finire. Dopo meno di un ventennio – tra ruberie e scandali di ogni tipo – il sistema dei partiti è crollato sotto le inchieste della magistratura, che hanno portato alla luce uno spaventoso sistema di corruzione.

Nel 1993 – avendo nel frattempo incassato dallo Stato mille e seicento miliardi di vecchie lire – il finanziamento venne abolito sulla base di un referendum popolare promosso da i radicali: era il mese di aprile e disse sì all’abrogazione oltre il 90% dei votanti. Giusto il tempo di riprendersi dallo shock e già nel dicembre dello stesso anno fu approvata una normativa che, aggirando di fatto l’esito del referendum, introduceva i cosiddetti “rimborsi elettorali”: 1600 delle vecchie lire moltiplicato per il numero degli abitanti della Repubblica, il che è come dire che nel calcolo dei contributi per le spese elettorali finivano anche i bambini e gli adulti che non si recavano alle urne.

Da allora fu tutto un susseguirsi di leggi e leggine che non ha fatto altro che aumentare gli introiti nelle casse dei partiti. Nel gennaio 1997 si provò anche a introdurre una sorta di contributo volontario attraverso il meccanismo del 4 per mille da destinare a questi ultimi direttamente dalla dichiarazione dei redditi. Ma fu un fiasco, gli italiani che aderirono furono una minoranza. Si provvide dunque a rivedere la normativa sui rimborsi a carico dello Stato. Nel 1999 – con la legge n. 157 approvata nel mese di giugno – il contributo fu stabilito a 4000 lire moltiplicato non più sul totale della popolazione ma – bontà loro – degli iscritti nelle liste elettorali della Camera dei Deputati (sempre comprendendo, dunque, anche chi non si recava a votare): dai 138 miliardi di rimborsi del 1994 si passò d’un colpo alla cifra di 175 miliardi (sempre espressi in lire).

Nel 2002 si cambiò ancora (e sempre in peggio, dal punto di vista dei cittadini contribuenti). Con la legge n. 156 votata nel mese di luglio – prendendo a pretesto il passaggio dalla lira all’euro – si decise un rimborso ai partiti nella misura di un euro moltiplicato per il numero degli iscritti nelle liste elettorali. Ma attenzione: un euro per ogni singola competizione elettorale (Camera, Senato, europee e regionali) e per ogni singolo anno di legislatura. Dunque – invece delle 4000 lire precedenti calcolate sul totale degli iscritti alle liste elettorali – quattro euro moltiplicati per il numero degli elettori e moltiplicati ancora per i cinque anni di ogni legislatura. Totale: 200 milioni di euro l’anno che in un quinquennio da la cifra di un miliardo. Un incremento spaventoso

Ma il vero colpo di genio fu realizzato nel 2005. E se la legislatura si chiude anticipatamente, ci si chiese con sgomento? Con un decreto del 30 dicembre, mentre gli italiani pensavano a come trascorrere il Capodanno, fu deciso che il versamento dello Stato ai partiti sarebbe stato erogato anche in caso di scioglimento anticipato del Parlamento (come in effetti è poi accaduto nel 2008, dopo la caduta del governo Prodi).

Per venire rapidamente all’oggi, si calcola che tra aggiustamenti, ritocchi, variazioni e aggiunte i partiti abbiano incassato – tra il 1994 e il 2012 – la bella cifra di tre miliardi e centomila euro (a prezzi correnti), finiti anche nella casse di formazioni nel frattempo scomparse (Forza Italia, Margherita, Alleanza nazionale).

Ma il vero problema – come segnalano nel loro recente libro, I soldi dei partiti, Elio Veltri e Francesco Paola (Marsilio Editore) – non è nemmeno l’ammontare abnorme di questo fiume di denaro. Ci sono anche altri aspetti che lasciano interdetti nella procedura cosiddetta dei rimborsi elettorali. Chi incassa questi soldi? Dei soggetti cui la Costituzione (art. 49) assegna il compito di concorrere “con metodo democratico a determinare la politica nazionale”, ma che in realtà sono a tutti gli effetti delle associazioni private, come tali sottratte a qualunque forma di controllo pubblico. E come vengono incassati questi soldi? Semplicemente presentando all’Ufficio di Presidenza della Camera bilanci e rendiconti che in realtà nessuno verifica nel merito al di là di un semplice riscontro formale? E come vengono spesi? A discrezione degli stessi partiti, anzi dei loro potentissimi tesorieri, che li usano come meglio credono. E si tratta di effettivi rimborsi? Per nulla, visto che non c’è alcuna corrispondenza tra i voti ottenuti e le spese effettuate in campagna elettorale e i soldi che i partiti ricevono, in quantità molto superiori ai costi documentati.

Insomma, un vero scandalo. Dal 1974 ad oggi nelle tasche della nostra classe politica son finiti – a prezzi correnti – 6 miliardi di euro di finanziamento pubblico diretto, senza considerare le erogazioni milionarie alla stampa di partito o altre forme di contribuzione indiretta. Una situazione da rimediare quanto prima possibile: non abolendo tout court il finanziamento dello Stato, come qualcuno propone demagogicamente, ma riducendo gli ammontare, introducendo controlli rigorosi sulle spese, imponendo la certificazione contabile dei bilanci e, infine, regolamentando con un’apposita legge l’attività dei partiti. Insomma, mettendo mano ad una nuova e più seria normativa. Una misura di buon senso, resa ancora più necessaria dagli scandali recenti, ma che – a quanto pare – nessuno è intenzionato ad adottare. Almeno sino a quando – stante il disagio della crisi economica – non ci sarà una sollevazione popolare.

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