di Alessandro Campi

o-salvini-parisi-facebookLe ambizioni egemoniche di Matteo Salvini, convinto di essere lui l’unico possibile successore di Silvio Berlusconi, erano note da tempo. La vittoria di Trump – che ha prontamente affiancato Putin e Kim-Jong-Un nel pantheon del leader leghista – lo ha semplicemente spinto ad accelerare i tempi della sua autocandidatura a capo del centrodestra. Si è evidentemente diffusa la convinzione che il nuovo Presidente americano possa essere considerato la guida politica della destra mondiale (come Clinton doveva essere la guida dell’Ulivo globale). Presto ci si accorgerà che è un unilateralista americano poco interessato a stringere alleanze ideologiche con le destre degli altri Paesi o a mettersi a capo di un’internazionale populista. Nell’attesa di comprendere l’errore, nel comizio fiorentino Salvini – secondo un riflesso provincialistico tipico della politica italiana – ne ha persino copiato la grafica. Ma non lo slogan: “Make Italy great again” in bocca ad un nazionalista padano non sarebbe francamente credibile. Si è limitato ad un più sobrio “Salvini premier”. Dopo Trump alla Casa Bianca, in effetti tutto sembra possibile.

Chi ha preso le distanze da Trump e dal suo un po’ troppo entusiasta emulo italiano, pur ammettendo qualche somiglianza caratteriale e politica tra sé e il tycoon newyorchese, è stato invece Silvio Berlusconi. L’inventore del centrodestra, colui che nell’Italia del maggioritario vinse avendo come alleati organici la Lega secessionista di Bossi e i post-fascisti di Alleanza nazionale, ritiene oggi che ci sia una differenza difficilmente colmabile tra un popolare e un populista, tra un liberale di centro e un radicale di destra. Non è possibile alcuna intesa politica tra chi aspira alle riforme e chi si limita ad alimentare la protesta. A meno che, beninteso, non sia lui o qualcuno di sua stretta fiducia a ispirare e guidare una simile intesa.

Salvini, che si sente spinto dall’onda della storia, minaccia di andare da solo nel nome dell’identità dei popoli minacciata dall’immigrazione e dal cosmopolitismo. Berlusconi, che non vuole mollare lo scettro del comando e ha pur sempre cospicui interessi personali da salvaguardare, minaccia di andare con Renzi nel nome della governabilità.

Il primo ha ragione quando sostiene che per vincere, come insegna il voto americano, non c’è più bisogno di ancorarsi al centro e di fare professione di moderatismo o prudenza: oggi si può andare al governo anche urlando, insultando, promettendo l’impossibile o inserendo nel proprio programma, ad esempio, la trasformazione del Quirinale in un gigantesco asilo nido. Ma ha torto quando pensa di poter essere lui da solo – senza più alleati che lo frenano nella sua battaglia a testa bassa contro l’establishment corrotto e affamatore del prossimo – il collettore della rabbia dei cittadini italiani. La Lega, per quanti sforzi egli possa fare, resta quel che è dalla nascita: un partito nordista che non sfonderà mai nel centro-sud. Quanto a proporsi come il capopopolo in grado di catalizzare elettoralmente la furia iconoclasta del popolo contro le oligarchie e di rivoltare il sistema come un guanto è stato preceduto su questa strada da un certo Beppe Grillo, che col suo movimento in tre anni ha già conquistato quasi il triplo dei voti leghisti.

Berlusconi, dal canto suo, ha ragione quando ritiene che per essere competitivi con Renzi e Grillo non ci si debba dividere e si debba ricompattare, in tutte le sue componenti, moderate e radicali, nordiste e sudiste, l’elettorato che per vent’anni si è riconosciuto nella formula del centrodestra e che in larga parte si è rifugiato nell’astensionismo in attesa di tempi migliori. Ma sbaglia due volte. Innanzitutto quando non comprende che a questa coalizione servono nuove idee e nuovi programmi, non le si può propinare l’abbecedario liberista e modernizzatore del 1994: in parte perché nel frattempo se ne è furbescamente appropriato Renzi, in parte perché quelle ricette nel segno dell’ottimismo deregolatore non hanno più alcuna presa sui cittadini impoveriti e impauriti da una interminabile crisi dell’economia. E sbaglia ancora quando si ostina a pensare che a guidare il futuro centrodestra debba essere, se non più lui a causa dell’età, qualcuno scelto direttamente da lui e toccato dalla sua benevola benedizione, come potrebbe essere il caso di Stefano Parisi.

L’unità del centrodestra nell’opposizione al referendum costituzionale è solo contingente. Se vince il “sì”, sarà stata una battaglia inutile, destinata a produrre risentimenti, incomprensioni e accuse reciproche. Se vince il “no”, si è già capito che non esiste una strategia condivisa su come affrontare un’eventuale caduta del governo Renzi. In un caso come nell’altro lo sfascio di quel mondo, tra personalismi esasperati e diaspore continue, potrebbe essere completo e definitivo. Resta una possibilità residua per evitare un simile esito: che prima o poi si arrivi ad un salutare e chiarificatore confronto/scontro interno – attraverso le primarie di coalizione o qualunque altro strumento si vorrà adottare – per capire chi debba eventualmente guidare il futuro centrodestra, sulla base di quale piattaforma e di quali rapporti di forza interni. Altrimenti, ognuno per la sua strada, a guardare Renzi e Grillo contendersi il comando dell’Italia.

* Editoriale apparso su “Il Messagero” e “Il Mattino” del 14 novembre 2016

 

 

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