di Daniele Bronzuoli
Dalle recenti elezioni politiche danesi sono usciti vincitori i socialdemocratici guidati da Mette Frederiksen, che con oltre il 25% dei consensi si sono imposti sul Partito liberale del premier uscente Lars Løkke Rasmussen. Un risultato del genere parrebbe a prima vista segnare un netto contrasto con quello scaturito dalle votazioni per l’Europarlamento del 26 maggio scorso. In tale occasione, infatti, la maggioranza relativa degli elettori (23,5%) aveva premiato la Venstre di Rasmussen, che dal giugno del 2015 era a capo di un esecutivo di centro-destra appoggiato anche dal Danks Folkeparti di Kristian Thulesen Dahl.
A ben guardare, tuttavia, il ritorno al potere dai socialdemocratici è stato preceduto da una campagna elettorale abbondantemente incentrata su un programma di sviluppo del Welfare (e quindi di abbandono dei tagli alla spesa pubblica) e di contenimento dei flussi migratori. Un tema, quest’ultimo, che ha consentito alla quarantunenne leader dei socialdemocratici di strappare voti preziosi alle formazioni di estrema destra (il DF ha perso circa 13 punti percentuali rispetto al 2015, passando dal 21 all’8,8%) e di porsi su una linea di sostanziale continuità con il precedente governo. Dalle urne danesi non è poi derivata nessuna significativa novità nemmeno rispetto dalle tendenze manifestate dall’elettorato europeo nei giorni compresi tra il 23 e il 26 maggio, quando è stato chiamato a scegliere i deputati al Parlamento di Bruxelles per i prossimi cinque anni.
Le forze cosiddette «sovraniste», che sono risultate vincitrici in Italia, Francia, Regno Unito e nei paesi membri del gruppo di Visegrad (ad eccezione della Slovacchia), o che sono comunque uscite rafforzate dalla contesa per l’Europarlamento (nella stessa Slovacchia l’SNS è il terzo partito con il 12% dei suffragi) convergono infatti tutte nell’obiettivo di mantenere o recuperare quelle prerogative in materia di controllo dei confini e gestione della spesa pubblica che sono state storicamente appannaggio della sovranità statuale e che attualmente, per buona parte, vengono in Europa delegate ad organismi di tipo sovranazionale. Esse raccolgono inoltre quelle pulsioni identitarie che covano sotto la coltre della globalizzazione ormai compiuta e si inaspriscono – come sempre accade quando le identità sono (o vengono percepite come) conculcate – a contatto col dogma liberista (ed europeista) della libera circolazione delle merci e delle persone.
L’impressione ricavabile dall’analisi dei risultati prodotti delle ultime consultazioni elettorali in Europa è dunque che le collettività continuino a guardare allo Stato nazionale come all’unico possibile strumento di tutela dei propri interessi, nonché come all’imprescindibile cornice istituzionale, simbolica e normativa entro la quale esercitare pienamente sia la sovranità popolare, sia i diritti-doveri relativi al rapporto giuridico di cittadinanza.
Sarebbe in effetti «immorale» – come scriveva nel 1951 Hans Joachim Morgenthau – «chiedere a una nazione di imbarcarsi in politiche altruistiche scordando l’interesse nazionale». E dello stesso avviso paiono essere anche gli attuali capi di governo di Francia e Germania (che ai loro elettorati devono pur rispondere) se è vero – com’è vero – che a pochi giorni dalla fine delle votazioni per l’Europarlamento Emmanuel Macron e Angela Merkel hanno già ingaggiato uno durissimo scontro sulla nomina del futuro presidente della Commissione, con il primo intenzionato a sfruttare il collasso di popolari e socialisti per fare del suo gruppo (ALDE) l’ago della bilancia di un nuova maggioranza allargata a Verdi e Liberali.
Il postulato della Salus Rei Publicae Suprema Lex Esto è del resto applicato da tempo immemorabile nella Germania dell’attuale cancelliera Merkel. È infatti nota la vicenda che ha preceduto la ratifica tedesca del Trattato di Lisbona, che la Corte costituzionale di Karlsruhe ha voluto – con sentenza del 30 giugno 2009 – subordinare al rafforzamento e all’estensione del ruolo di Bundestag e Bundesrat nelle questioni relative all’Unione Europea e al riconoscimento di controlimiti materiali alla prevalenza del diritto comunitario su quello interno.
Nato nel quadro dei fermenti rivoluzionari francesi della fine del XVIII secolo, lo Stato nazionale – che agita le acque delle relazioni fra gli Stati legati dal Trattato del 2007 – ha tessuto la trama della storia europea (e non solo) nel corso degli ultimi due secoli abbondanti. C’è da supporre che continuerà a farlo, facendo valere il suo carico di interessi e aspirazioni identitarie e protestando il suo protagonismo dirimpetto ad ogni soluzione di tipo universalistico e ad ogni deriva di natura tecnocratica.
Ai governanti del Vecchio Continente non resta che prendere atto di questa verità storica, nella consapevolezza che la tensione delle popolazioni all’autogoverno degenera in nazionalismo quando viene negletta, o ignorata. La soluzione potrebbe consistere anche in una applicazione più coerente di quel «principio di sussidarietà» contenuto nell’articolo 5 del Trattato sulla Comunità Europea, che impone alle istituzioni sovranazionali di intervenire solo se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono essere meglio realizzati al livello dell’UE.
In altri termini – e come ha scritto anche Sergio Fabbrini tempo fa sul Sole 24 Ore – «l’Europa unita potrà essere solamente un’unione sovrana di Stati sovrani». Il sogno tardo-giacobino di un «sovranismo europeista» genera i mostri del nazionalismo.
Lascia un commento