di Giuseppe Romeo
La Russia, con buona pace di un presidente del consiglio italiano che ha “ammonito” Putin, non è una squadra di calcio che gioca partite per un campionato, e né, tantomeno, una realtà semplice e fragile come qualcuno vorrebbe ancora oggi credere. La Russia, soprattutto, non è un attore estraneo agli equilibri continentali e, da qualche anno, anche se poco percepiti dall’Europa post-atlantica, mondiali. La Russia, non è, soprattutto, la Russia di Stalin o di Kruscev, e neanche quella di Breznev o della glasnot di Gorbaciov. La Russia è la… Russia. Una nazione complessa, tenuta insieme da fragili e sovrapposti equilibri interni dove il sentimento di nazione corre su un’identità non solo culturale, ma fisica, territoriale e geopolitica che non fa sconti e che, nonostante l’epoca trascorsa del socialismo di stato, e la modernizzazione delle “pussy riot”, esprime ancora oggi un forte senso di nazionalità che diventa difficile metterlo in crisi.
Se Mosca, al di là delle posizioni di circostanza in cui esprimeva posizioni discordanti, ha permesso all’Unione Europea di avanzare verso Est con l’integrazione economica degli ex Stati satelliti e non ha messo in campo azioni politiche di ritorsione verso la forward strategy atlantica espressa già con Partnership for Peace – prodromica formula all’ingresso nel’alleanza dei partner dell’ex Patto di Varsavia – ciò lo si è dovuto alla scelta di abbandonare una insostenibile esposizione in avanti mantenendo un peso di influenza che non avrebbe permesso altrettanto economicamente e politicamente a Mosca la persistenza di una nuova dilatazione politico-strategica che sarebbe stata pagata dalla necessità, urgente, di stabilizzare e riorganizzare il modello politico ed economico di una Russia non più sovietica.
L’Ucraina, nel suo dramma, ha condiviso la storia della Russia imperiale prima, sovietica poi, testimone e teatro delle ambizioni di una potenza che fa dipendere le sue capacità di presenza geopolitica nel Mediterraneo dalla Crimea. La crisi odierna non è solo una questione di sovranità o di territori, ma di prestigio e di manifestazione di capacità di azione politica di un regime – se questo è il termine più caro all’Occidente euroamericano per definire governi diversamente leciti o legittimi – che eredita la transizione eltsiniana, difficile e non incruenta, per difendere l’unità politica di un’idea di grande nazione che si pone tra l’Europa e l’Asia e, in questa posizione, al centro del mondo. La Crimea non é stata “regalata” all’Ucraina. Kruschev non era motivato da simili filantropie e non prevedeva certo, nel fare un simile dono seppur con garanzie di autonomia, una possibile uscita di Kiev dalla galassia sovietica. Nella volontà del leader del PCUS, seppur simbolo del processo di destalinizzazione progressiva, essa fu fatta rientrare all’interno della Repubblica Ucraina per pacificare le relazioni russo-ucraine dopo le alterne vicende che hanno coinvolto le rispettive popolazioni nella seconda guerra mondiale in un clima di denazificazione e riappacificazione tra Mosca e Kiev.
Oggi nessuno mette in dubbio la necessità di aprire un negoziato credibile sulla Crimea. Ma a questo riguardo l’Occidente non saprebbe dove andare ad affidarsi se non coinvolgere la Merkel, ad esempio, unico leader in grado di garantire tale profilo dal momento che la Germania rimane l’unico “ponte” storico disponibile tra Est ed Ovest oggi come ieri e questo, al di là delle scaramucce verbali di circostanza, lo sanno sia Mosca che Berlino. D’altra parte, per Obama e gli Stati Uniti, contestare l’intervento russo in Crimea potrebbe creare qualche imbarazzo dal momento che sarebbe come permettere di farsi contestare tutte le violazioni di sovranità commesse da Washington a vario titolo – in nome di una prospettiva neomonroniana, o postrooseveltiana se piace meglio – creando corollari di esclusività di intervento in centroamerica o di una propria visione di esportazione di modelli di governo promossi direttamente o con compiacenti leader del momento.
Di questa crisi, ciò che sorprende però è come un certo Occidente, come dimostrato in Egitto, Libia, Siria getti la pietra e poi tenti di nascondere la mano. Il vero problema, non è se Putin viva o meno in questo mondo. Il Presidente russo vive in Russia e, data la sua ampiezza e la sua storia, è già un mondo abbastanza vasto, multiculturale e multietnico che si affaccia su altrettanti due mondi con i quali Mosca si confronta da secoli: l’Occidente e l’Oriente. Putin conosce bene l’Occidente euroatlantico, ne conosce dinamiche, pregi e debolezze. Sui cosiddetti “pregi”, l’Occidente è visto come buon pagatore e come un mercato così libero da garantire il successo economico della Russia e dei suoi neocapitalisti, dal momento che al di là della dipendenza energetica, molti patrimoni occidentali sono russi.
Sui difetti di lungimiranza politico-strategica della NATO e dell’Unione Europea – che potremmo dire che di fatto ha archiviato la Politica Europea di Sicurezza e Difesa per inazione – Putin agisce come crede in Ucraina, come altrove, consapevole che nel gioco continentale vede attori solo Mosca e Berlino mentre nel mondo gli Stati Uniti soffrono di una progressiva sindrome da “imperial overstretch” per parafrasare Paul Kennedy. Una crisi già pagata dal modello sovietico e dalla quale Mosca se ne è tenuta lontana concentrando le proprie energie a difendere e consolidare lo status quo quasi come se Putin avesse letto The Rise and Fall of the Great Powers (in Italia uscito come Ascesa e declino delle grandi potenze). In questo ennesimo delicato equilibrismo geopolitico, l’Ucraina paga il vero errore commesso dall’Occidente: isolare, in tempi più utili e significativi, Mosca da ogni iniziativa continentale svuotando di significato lo stesso Consiglio Congiunto NATO-Russia e non volendo stringere – regolandoli – rapporti economici con Mosca coinvolgendola nelle grandi scelte internazionali. Una posizione di partnership vera che avrebbe, in un clima di relazioni paritarie e di cooperazione rinnovatosi dopo la fine della Guerra Fredda, costretto Mosca, oggi, a discutere – e risolvere – con Unione Europea e la NATO qualunque crisi, presentatasi sul continente europeo o ad esso prossima.
In un mondo in cui le partite per il potere economico e non solo si giocano dovunque, isolare Mosca, e con essa il suo Presidente, significa cercare di mettere fuori campo un attore economico prim’ancora che militare che nel suo agire coniuga proprio Occidente e Oriente, Europa e Asia passando per il Medio Oriente, tra mondo cristiano e mussulmano. Se un errore vi è stato è il mancato ingresso dell’Ucraina nella NATO. Un mancato ingresso che impedisce all’alleanza di poter ricorrere, semmai se ne fosse assunta l’onere, all’art. 5 del trattato. Così come nessuna sanzione potrà essere efficace dal momento che Mosca ha superato ben altre prove nella storia e, dalle relazioni che potrebbe stringere in un’ottica di reazione antioccidentale, certamente troverebbe alleati politici ed economici con i quali, tornando a casa, noi dovremmo poi fare i conti.
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