di Alessandro Campi

untitledIl naufragio della nave da crociera Costa Concordia, avvenuto il 13 gennaio 2012 dinnanzi all’isola del Giglio e costato la vita a 32 persone, fu molto più che una tragedia del mare: fu uno psicodramma collettivo, lo specchio nel quale finirono per riflettersi la cattiva coscienza, le paure e le inefficienze di un’intera nazione. Quell’incidente, provocato da un misto di imperizia e superficialità, come apparve subito chiaro e come è emerso dalle indagini successive e dal processo che ancora si sta svolgendo, divenne immediatamente la metafora di un Paese disorganizzato, alla deriva e prossimo a sua volta a inabissarsi.

L’Italia – scrissero all’epoca fior di commentatori – era esattamente come quel lussuoso transatlantico nato per abbandonarsi al divertimento e schiantatosi contro uno scoglio per colpa di una manovra improvvida: un Paese bellissimo e onusto di storia, ma divenuto ormai ingovernabile, lasciato a se stesso e affidato in mani irresponsabili, destinato ad un tragico destino.

La personalità del comandante Francesco Schettino, disceso dalla nave senza preoccuparsi della sorte dei suoi passeggeri, venne subito associata, sulla base di facili ma inevitabili suggestioni storiche, al modo d’essere e di comportarsi tipico delle classi dirigenti italiane: pronte a darsi alla fuga nei momenti difficili, disposte ad abbandonare i cittadini alla loro sorte pur di mettersi in salvo esse per prime. Perché sorprendersi del comportamento poco eroico di quel comandante se già nel passato italiano è accaduto di vedere re e generali darsela a gambe senza alcuna vergogna? E perché sorprendersi se quello stesso comandante, una volta portato alla sbarra, ha continuato ad addossare ai suoi sottoposti la colpa di ciò che è accaduto? Si sono mai visti, nella storia d’Italia, capi e uomini di potere che si siano pubblicamente assunti la colpa degli errori commessi (pagando per essi) o che abbiano chiesto scusa?

Il danno d’immagine e di pubblica considerazione che ne venne all’Italia, come si ricorderà, fu enorme. Anche in virtù della straordinaria eco mediatica avuta dall’intera vicenda. All’Italia, in un mondo nel quale si giudica il prossimo ancora sulla base di stereotipi collettivi difficili da scardinare, per trovare un motivo di orgoglio e una ragione di riscatto non restò che innalzare sugli altari la figura del capitano Gregorio De Falco. E solo perché aveva intimato a Schettino di risalire a bordo della sua nave con un’imprecazione divenuta virale e persino proverbiale. Aver semplicemente fatto il proprio dovere, in un Paese dove la tendenza sembrerebbe quella a sfuggire le responsabilità individuali, fu considerato motivo sufficiente per farlo entrare nel pantheon delle glorie nazionali, da enfatizzare agli occhi del mondo. L’italiano vigliacco, furbo e fedifrago, secondo l’immagine negativa che all’estero spesso si ha di noi e che Schettino sembrava aver sublimato, veniva per fortuna compensato dall’italiano onesto, coraggioso e tutto d’un pezzo.

E se emblematica dell’immobilismo italiano poteva considerarsi la carcassa della Concordia rimasta per due anni ad arrugginirsi dinnanzi al Giglio, una prodezza tecnica – degna del genio italico – fu ritenuta l’averla rimessa in linea di galleggiamento per poi avviarla alla demolizione nel porto di Genova (non senza aver nel frattempo litigato in modo indegno, con spirito bassamente mercantile, su chi dovesse accaparrarsi l’affare dello smantellamento).

Alla luce di questa triste vicenda, che certo resterà per lungo tempo nell’immaginario e nella memoria degli italiani, come considerare quel che è accaduto con l’incendio in mezzo al mare del traghetto Norman Atlantic? Poteva essere, stando alle immagini che abbiamo visto e ai racconti di sopravvissuti, un’ecatombe, anche se i sette morti accertati (potrebbero però esserci ancora dei dispersi) sono comunque un tragico bilancio. Ma quel che ha colpito questa volta è stato il funzionamento della macchina del soccorso, peraltro in condizioni proibitive: vento a 50 nodi, mare forza 7-8, onde alte 4-5 metri, dovendo inoltre condurre l’evacuazione nel corso della notte. L’abnegazione è stata assoluta, l’impegno massimo, il coordinamento tra le varie forze (dalla Marina alla Protezione civile) efficiente e puntuale. Si dirà che tutto ciò è normale e scontato, in un Paese minimamente civile. Ma visti i precedenti nemmeno remoti, c’è di essere soddisfatti.

C’è poi da segnalare, in questa operazione di salvataggio in mare che come imponenza non ha molti precedenti (ma forse bisognerebbe anche ricordare l’attività ordinaria, meno eclatante, della nostra Marina nel Mediterraneo del sud, a beneficio dei naufraghi immigranti), il comportamento esemplare del comandante del traghetto, Argilio Giacomazzi, che per ultimo – come da protocollo marinaro – ha lasciato il suo naviglio, dopo che tutti i passeggeri erano stati portati in salvo. Anche in questo caso nulla di eroico, da additare ai posteri o da portare a modello di comportamento virtuoso (come già stanno facendo i social network in chiave anti-Schettino), ma che nelle professioni ancora si avverta il senso del dovere e l’etica della responsabilità è qualcosa che – visti i cattivi umori e il cinico disincanto che da anni avvelenano la nostra vita pubblica – lascia ben sperare per il futuro.

Si dirà che tutto ciò, oltre che banale, rischia di suonare persino patetico: quasi che si cercasse una modesta ed effimera compensazione simbolica alle nostre manchevolezze strutturali. Ma se esiste la retorica del disfattismo, mai piacevole anche se tutti in Italia tendono a intonarla con un gusto quasi masochistico, lasciamo che esista per una volta la retorica dell’ottimismo. Perché dovremmo privarci del piacere di riconoscere che stavolta le cose hanno funzionato a dovere e che, sempre nel contesto di un drammatico incidente, l’Italia ufficiale ha dato una buona prova di sé? Coltiviamo così tanto il pregiudizio nei nostri stessi confronti, che per una volta non ci farà male mostrarci orgogliosi per quel che abbiamo fatto.

*Editoriale apparso su “Il Messaggero” del 30 dicembre 2014.

 

Lascia un commento

Your email address will not be published. Required fields are marked (required)