di Damiano Palano
Nel 1977 Guido Carli – che allora ricopriva la carica di Presidente di Confindustria, dopo essere stato dal ’60 al ’75 governatore della Banca d’Italia – rilasciò a Eugenio Scalfari una lunga intervista, nella quale esponeva la propria lettura del ‘caso italiano’ e della crisi in cui versava allora il paese. L’interpretazione che svolgeva Carli non era in fondo molto originale, perché individuava alla base della crisi economica un progressivo deterioramento dello «spirito imprenditoriale», un processo innescato inizialmente dalla nazionalizzazione dell’industria elettrica e dagli effetti negativi del credito agevolato, ma poi condotto a termine dalle mobilitazioni sindacali della fine degli anni Sessanta. Come sintetizzava nitidamente lo stesso Carli: «dal ’69 in poi questo processo di distruzione vera e propria dello spirito imprenditoriale ha registrato un’accelerazione senza confronti col passato. Lo Statuto dei lavoratori e la rigidità della forza-lavoro: sono stati questi i due momenti fondamentali del deterioramento della situazione. Con essi siamo arrivati al culmine della disgregazione del sistema» (G. Carli, Intervista sul capitalismo italiano, a cura di E. Scalfari, Laterza, Roma – Bari, 1977, p. 113).
Se queste dinamiche, secondo Carli, avevano fatto precipitare la situazione dell’economia italiana, l’ex-governatore dalla Banca d’Italia ritrovava però anche una contraddizione di fondo nelle scelte compiute dalla classe politica italiana: una contraddizione che scaturiva, da un lato, dalla decisione adottata alla fine degli anni Cinquanta di aderire alla Comunità Europea, e, dall’altro, dal permanere di una diffidenza, se non di una vera e propria ostilità, nei confronti della logica dell’economia di mercato. In altre parole, secondo Carli la classe politica italiana non si era resa conto, al momento dell’adesione alla Cee, di cosa quella decisione avrebbe comportato, e in special modo non si era resa conto che – laddove non fosse intervenuto un adeguamento delle strutture del paese – l’economia nazionale non sarebbe stata in grado di affrontare la competizione degli altri partner europei. In questo senso Carli osservava, dinanzi all’allora direttore di «Repubblica»: «Fu un errore non rendersi conto delle conseguenze che quell’adesione avrebbe avuto e dei mutamenti che essa obbligatoriamente comportava. Mi sembra insomma che all’origine della nostra crisi vi sia una profonda contraddizione tra l’aver ‘affondato’ l’economia italiana nel sistema dell’economia di mercato dominante in tutt’Europa e, nello stesso tempo, l’aver conservato o addirittura accresciuto un atteggiamento di ostilità verso l’economia di mercato e verso i meccanismi che vi presiedono» (p. 65).
Carli naturalmente non era affatto contrario all’adesione alla Cee, di cui era stato anzi a suo tempo uno strenuo sostenitore e della cui opportunità continuava a essere fermamente convinto anche negli anni Settanta. Ciò di cui si rammaricava era invece la miopia della classe politica italiana, una miopia che scaturiva a suo avviso proprio dall’ostilità ‘culturale’ nei confronti del ruolo imprenditoriale da parte non solo del mondo sindacale e della sinistra, ma da parte anche di una porzione consistente del mondo democristiano. Ad avviso di Carli, non si trattava inoltre di elementi congiunturali, legati a quel periodo specifico, perché erano atteggiamenti profondamente radicati nella società italiana e molto difficili da scardinare o modificare. Proprio per questo dall’Intervista sul capitalismo italiano emergeva un marcato pessimismo, che certo non precludeva l’individuazione di qualche spazio d’azione, ma che d’altro canto appariva molto lontano dal prefigurare margini di ripresa.
Nonostante le cupe previsioni di Carli, l’economia italiana iniziò di lì a qualche anno a mostrare segni rilevanti di ripresa, tanto che gli anni Ottanta – a torto o a ragione – sono ancora oggi ricordati da molti come una sorta di perduta «età dell’oro». Che quella crescita, per quanto favorita anche dall’esplosione del made in Italy, fosse in misura non marginale legata anche a quell’espansione del debito pubblico di cui ancora oggi ci troviamo a pagare le conseguenze, era però ben chiaro a Carli. Anche per questo non abbandonò neppure nel corso degli anni Ottanta la propria diffidenza nei confronti della classe politica italiana, giudicata inadeguata a gestire un paese sottoposto a crescenti pressioni internazionali. E così – prima ancora che esplodesse la crisi della cosiddetta «Prima Repubblica» – ricercò le condizioni per introdurre nel sistema italiano una sorta di riforma ‘invisibile’, capace di costringere gli attori politici a rispettare, persino contro la loro stessa volontà, la disciplina dei conti pubblici e i principi dell’economia di mercato. Più specificamente Carli – che fu Ministro del Tesoro nell’ultimo governo Andreotti, al principio degli anni Novanta – individuò nel negoziato europeo che avrebbe condotto alla firma del Trattato di Maastricht, il 7 febbraio 1992, l’opportunità per imporre al sistema italiano quello che più tardi, nelle sue memorie, l’ex-governatore definì un «vincolo esterno»: «La nostra scelta del ‘vincolo esterno’», si legge infatti nelle sue memorie postume, «nasce sul ceppo di un pessimismo basato sulla convinzione che gli istinti animali della società italiana, lasciati al loro naturale sviluppo, avrebbero portato altrove questo Paese» (G. Carli, Cinquant’anni di politica italiana, in collaborazione con Paolo Peluffo, Laterza, Roma – Bari, 1993, p. 267). Naturalmente la classe politica – che già non aveva intuito quali fossero le implicazioni dell’adesione alla Comunità Europea – non comprese neppure quali sarebbero state le conseguenze di Maastricht, e in particolare – come lo stesso Carli non mancava di osservare – non si rese conto che, sottoscrivendo i vincoli fissati dal Trattato, accettava di fatto «un cambiamento di una vastità tale che difficilmente essa vi sarebbe passata indenne» (ibi, p. 437).
Oggi, a quasi un quarto di secolo dalle trattative che condussero a Maastricht, ci appare del tutto chiaro come il «vincolo esterno» abbia pesato sulla politica italiana molto più di ogni altro aspetto, tanto che persino l’intera parabola del bipolarismo della «Seconda Repubblica» può essere considerata come un tentativo – più o meno riuscito – di rispettare (o aggirare) quel vincolo. E proprio per questo è davvero importante il libro di Emidio Diodato, Il vincolo esterno. Le ragioni della debolezza italiana (Mimesis, pp. 172, euro 15.00), un testo che non si sofferma solo sul presente e sul passato recente, ma si spinge anche all’indietro, per meglio comprendere le radici di un processo che giunge a manifestarsi compiutamente solo al principio del XXI secolo. Il libro di Diodato, politologo dell’Università per Stranieri di Perugia, non è infatti solo dedicato alla politica italiana della «Seconda Repubblica», perché – adottando una prospettiva davvero fruttuosa, e assai poco praticata in Italia – tenta anche di cogliere l’interazione fra la dimensione interna e quella internazionale. Da questo punto di vista, Diodato richiama infatti la vecchia (ma spesso dimenticata) lezione di Otto Hintze, secondo cui il mutamento nell’assetto interno di uno Stato costituisce il riflesso – ovviamente non automatico – delle trasformazioni del sistema internazionale. E, inoltre, ricostruisce la relazione problematica fra lo Stato e la democrazia in Italia, evidenziando la portata dei due «vincoli esterni» che, prima di quello di Maastricht, ‘ancorarono’ il sistema: l’adesione agli istituti di Bretton Woods, dopo la seconda guerra mondiale, e l’entrata nel Sistema Monetario Europeo nel 1979. Ma ovviamente l’analisi è proiettata soprattutto sul terzo «vincolo esterno», rappresentato da Maastricht. E proprio riesaminando il significato che tale vincolo ha avuto per la politica italiana dell’ultimo ventennio, Diodato viene a sviluppare un’analisi preziosa, che riesce a cogliere la connessione fra alcune dinamiche interne e un processo che vede modificarsi il ruolo internazionale dell’Italia.
Ci sono in particolare tre nodi su cui Diodato si concentra, e su cui vale la pena soffermarsi. Un primo aspetto è rappresentato dalla sostanziale impreparazione con cui la classe politica italiana della «Prima Repubblica» giunse all’appuntamento europeo di Maastricht. Con la dissoluzione del blocco sovietico, le tradizionali linee di politica estera adottate dall’Italia si trovarono in gran parte spiazzate da un quadro radicalmente nuovo. Il primo episodio in cui emersero le difficoltà fu senza dubbio la Guerra del Golfo del 1991, perché l’opposizione di Arafat all’intervento internazionale contro l’Iraq di Saddam Hussein mise in crisi il ruolo che l’Italia aveva assunto nello scacchiere mediterraneo, incrinando così l’immagine di «media potenza regionale» cui la classe politica del Belpaese aveva lavorato per decenni. Anzi i tentativi di nuovo attivismo sperimentati negli anni Ottanta – nel quadro della ‘nuova guerra fredda’ di Ronald Reagan – si rivelarono, dalla prospettiva del 1989, come «uno sforzo tutto sommato improduttivo e anzi dannoso per il paese», perché «non predispose di certo l’Italia ad affrontare l’appuntamento, molto più impegnativo, di Maastricht» (p. 91). L’assenza di una politica estera adeguata al passaggio in atto doveva invece aprire uno spazio di manovra alternativo, e in questo spazio venne a inserirsi proprio l’iniziativa di Carli, il quale comprese come nel nuovo scenario, successivo alla dissoluzione del blocco sovietico, le priorità della politica estera mutassero radicalmente, perché in particolare la riunificazione tedesca configurava un fattore di nuova instabilità. La conclusione del Trattato di Maastricht avvenne così anche sull’onda della riunificazione tedesca, e la sua architettura fu concepita – certo paradossalmente, giudicando come poi si sono snodate le vicende dell’Ue – come uno strumento con cui gli altri partner europei cercarono di vincolare la nuova Germania unita. Come scrive Diodato in questo senso: «La preoccupazione per il rafforzarsi sul continente di una nazione capace di sovrastare le altre spinse il governo italiano a sostenere con grande fiducia il mantenimento del Patto atlantico e, allo stesso, tempo, a procedere con forza verso l’unificazione politica oltre che monetaria dell’Europa. Si ritenne, infatti, che solo entro un’Europa più unita, ma difesa dal Patto atlantico, sarebbe stato possibile proseguire l’integrazione del continente senza che una nazione (cioè la Germania) prevalesse sulle altre. Tuttavia, questa posizione fu più una scommessa sul futuro che una ponderata scelta diplomatica» (p. 94). Il vincolo che da quel momento avrebbe pesato sull’Italia si è tradotto, nota anche Diodato, in un fardello sempre più gravoso: «non siamo in grado di capire se l’Unione saprà rivelarsi la risposta adeguata alla crisi della sovranità dello Stato moderno. Quel che sappiamo è che l’Italia, a causa del suo ritardo con la modernità, nel corso del Novecento si è trovata a dover gestire un vincolo esterno divenuto sempre più costrittivo. Il rischio è che l’attuale vincolo monetario possa paralizzare lo sviluppo democratico ed economico del paese, soprattutto se la corruzione politica renderà vana ogni virtù nazionale» (p. 103). Più in generale, dunque, il vincolo esterno – da potenziale risorsa – si è tramutato (forse definitivamente) in un peso insostenibile: «i vincoli esterni possono essere considerati salvifici nella misura in cui indicano una via (ragionevolmente univoca) di sviluppo moderno, e quindi sono gestiti o governati mediante una politica estera capace di trasformare le preferenze in potere nazionale. Altrimenti rischiano di paralizzare lo sviluppo democratico ed economico del paese, soprattutto se la riabilitazione ortopedico-monetaria e la rieducazione all’austerità economica non funzionano» (p. 133).
Un secondo nodo su cui Diodato si sofferma è invece costituito proprio dal «berlusconismo», ed è a questo proposito che si impegna in una discussione dell’interpretazione proposta da Giovanni Orsina, secondo il quale Silvio Berlusconi è stato – nell’intera vicenda unitaria – l’unico leader che non si sia proposto di ‘correggere’ gli italiani, mediante soluzioni ortopediche e pedagogiche. In realtà Diodato non concorda con l’interpretazione di Orsina, soprattutto perché tale lettura non considera in alcun modo l’insieme delle pressioni provenienti dall’esterno e dunque il peso del «vincolo esterno». A proposito della lettura avanzata dallo storico, Diodato osserva infatti che essa «non considera la realtà istituzionale dello Stato, quindi le condizioni politiche di esistenza della comunità nazionale e le relazioni internazionali che influenzano la direzione e il carattere delle istituzioni»: quella proposta da Orsina, dunque, è «una spiegazione tutta ripiegata all’interno del paese che esclude ogni riferimento al contesto esterno» (p. 147). Nelle pagine dello stesso Orsina, Diodato però scorge anche le tracce che conducono verso un’altra proposta, che in questo caso considera la parabola e le trasformazioni del «berlusconismo» proprio alla luce delle trasformazioni del quadro internazionale. Se il primo governo presieduto dall’imprenditore vede positivamente la globalizzazione e considera sufficiente ‘liberare’ le risorse presenti nella società italiana eliminando ‘lacci e lacciuoli’, il secondo governo Berlusconi – a partire dal 2001 – deve invece modificare la propria prospettiva, ricercando proprio nella politica (e in special modo nella politica estera) lo strumento grazie al quale legittimare la reazione al vincolo europeo. Naturalmente questi tentativi si risolvono in un fallimento e la caduta del quarto governo Berlusconi, nel novembre 2011, sancisce in modo inequivocabile la conclusione della parabola politica dell’imprenditore milanese, oltre che, al tempo stesso, la sconfitta del proposito di rovesciare il vincolo esterno.
Il terzo nodo su cui l’analisi di Diodato si sofferma è probabilmente quello più significativo, perché riguarda il nesso fra il vincolo esterno e il processo di «de-democratizzazione» del sistema politico italiano. Ma Diodato da questo punto di vista non evoca complotti o minoranze che operano nell’ombra per depotenziare gli istituti della democrazia parlamentare. Piuttosto, attira l’attenzione su ciò che è avvenuto in Italia, e su ciò che non ha consentito di tramutare il vincolo esterno in una risorsa. «Se vi è stato un processo di de-democratizzazione», osserva per esempio, «questo non è imputabile alla rottura di un vincolo interno, ossia del legame fra opinione pubblica e politica estera», bensì «all’indebolirsi del potere nazionale, o, meglio, della capacità e forse della volontà dei decisori politici di trasformare i vincoli internazionali in opportunità per il paese, quindi le preferenze nazionali in azioni di politica estera» (pp. 138-139). E in questo senso il politologo finisce con l’assolvere quel decadimento della comunicazione politica cui è spesso stata attribuita in Italia la responsabilità della degenerazione della dinamica democratica: «Inseguendo il fantasma del berlusconismo, troppo spesso in Italia si è parlato di crisi della democrazia come diretta conseguenza della degenerazione della comunicazione. Naturalmente ciò è stato imputato alla capacità di Berlusconi di controllare la comunicazione grazie al possesso di televisioni e giornali. Ma si dimentica, in questa critica, che l’insoddisfazione nei confronti della democrazia italiana è esistita sin dalla nascita della Repubblica» (p. 141). Per Diodato, invece, la vera spiegazione di quanto avvenuto in Italia nell’ultimo ventennio – e anche della polarizzazione fra centro-destra e centro-sinistra – va rinvenuta nel quadro internazionale e naturalmente nelle implicazioni del vincolo esterno. «Piuttosto che discutere di Maastricht e della sua moneta unica», osserva infatti, «le forze politiche e anche quelle intellettuali (teologi e parroci) hanno cercato la risposta ai problemi del paese discutendo, come fanno i contendenti di un derby politico, la superiorità del berlusconismo o dell’antiberslusconismo» (p. 141). Ma in questo modo si è fatalmente sottovalutato il fatto che proprio a Maastricht furono scritte le pagine più importanti di quella che sarebbe diventata, qualche anno dopo, la «Seconda Repubblica»: «L’ascesa e poi il declino del berlusconismo hanno avuto origine proprio in questa sottovalutazione. La decisione presa a Maastricht non fu quella di operare un trapianto, bensì di eseguire un più efficace intervento ortopedico-monetario, accompagnato da un forte sostegno pedagogico tutt’altro che approssimativo» (p. 142).
Ciò che abbiamo vissuto negli ultimi vent’anni è stato davvero l’esito delle decisioni di Maastricht. E per quanto le conseguenze di quelle decisioni si siano rivelate molto diverse da quelle in cui confidavano gli estensori del trattato, era ben chiaro fin da allora – forse non alla classe politica italiana, ma sicuramente all’allora Ministro del Tesoro – che cosa avrebbe significato il «vincolo esterno». Se, infatti, la forma politica dell’Unione Europea è un unicum, che non ha eguali nella storia, è anche piuttosto chiaro che la struttura che ha assunto l’edificio europeo a partire dagli anni Novanta è il risultato di una ben precisa volontà: non soltanto della volontà di procedere nel senso dell’unificazione ‘nonostante’ i popoli, e cioè a dispetto delle resistenze dei singoli elettorati nazionali; ma soprattutto della volontà di ‘de-democratizzare’ i sistemi politici europei, ossia di sottrarre alcune decisioni – principalmente di carattere economico – all’influenza degli elettorati nazionali e dunque alla stessa autonomia delle singole classi politiche. Ciò non ha semplicemente a che vedere con la rinuncia alla sovranità da parte degli Stati nazionali, ma piuttosto appare connesso alle modalità con cui il trasferimento di alcuni poteri a livello sovranazionale si è verificato, soprattutto nel passaggio cruciale che conduce a Maastricht. Il punto è che nella costruzione europea la dimensione della legittimazione ‘verticale’, ossia la legittimazione proveniente dal ‘basso’, dagli elettorati, è stata di fatto sempre sostituita da un meccanismo di prevalente legittimazione ‘orizzontale’: un meccanismo in cui i singoli governi nazionali vengono legittimati dagli altri partner in virtù del rispetto degli accordi assunti collegialmente. Questo sistema di legittimazione scaturisce dalla stessa originaria natura di organizzazione internazionale della Comunità europea, nella quale la dimensione intergovernativa è inevitabilmente prevalente su qualsiasi dimensione che chiami in causa le singole opinioni pubbliche. Con la progressiva trasformazione della Comunità in un’Unione tendenzialmente ‘federale’, a questa dimensione doveva affiancarsi un ruolo più significativo del Parlamento europeo: tale processo, nonostante l’allargamento delle competenze dell’assemblea, non ha però mai realmente indebolito la logica intergovernativa. Il punto, così, è che proprio una simile logica viene a offrire una formidabile soluzione per raggiungere determinati obiettivi ‘neutralizzando’ le resistenze interne. Come osserva Diodato, la tendenza conduce, più che a uno sgretolamento dell’autorità statale, verso «l’emergere di una autorità invisibile, per quanto non meno efficace nel controllo delle società» (p. 102). Come sottolinea chiaramente Diodato, se forse la classe politica italiana del tempo non comprese fino in fondo la portata della decisione, essa era invece ben chiara a Carli, per cui la via dell’Ue era la stessa che conduceva allo «Stato minimo»: «Solo riducendo la sovranità democratica, l’unione monetaria di Maastricht avrebbe potuto vincolare i paesi europei, e soprattutto l’Italia a performance politiche idonee alla competizione globale. […] Maastricht fu quindi una scelta politica, prima che tecnica ed economica, e il Trattato sulla stabilità del 2 marzo 2012 ne ha dato piena conferma» (pp. 102-103).
Nel testo sono molte le riflessioni che richiederebbero un approfondimento. Ma l’aspetto che rende interessante il discorso di Diodato è soprattutto il rovesciamento di una tendenza interpretativa che nel corso degli ultimi dieci anni ha ricondotto la ‘crisi’, il ‘logoramento’ e la ‘decadenza’ della democrazia italiana a quel fenomeno – al tempo stesso politico, economico e culturale – che è stato spesso definito «berlusconismo». Certo ci possono essere pochi dubbi sul fatto che l’ascesa politica di un magnate dell’industria televisiva abbia rappresentato un’anomalia nell’ambito delle democrazie occidentali e sul fatto che la concentrazione di potere economico e politico abbia prodotto ben pochi effetti benefici sulla vitalità delle istituzioni. Ciò nondimeno è davvero molto probabile che le analisi che hanno considerato il «berlusconismo» come la causa della ‘crisi’ democratica – e tra queste analisi importanti e talvolta anche preziose – abbiano quantomeno peccato di ‘provincialismo’, nella misura in cui hanno evitato di confrontarsi col quadro internazionale: e cioè non solo sottovalutando la transizione geopolitica, ma anche trascurando quelle trasformazioni interne che diventano comprensibili (come suggeriva Hintze) solo tenendo conto delle pressioni esterne. Ed è invece proprio perché si concentra su questo nesso fra ‘interno’ ed ‘esterno’ che l’analisi di Diodato viene a fornire indicazioni (anche metodologicamente) importanti, meritevoli di un esame ponderato e di ulteriori verifiche.
Oltre a offrire delle sollecitazioni fondamentali per individuare la corretta prospettiva da cui indagare il processo di «de-democratizzazione» del sistema politico italiano, il quadro delineato da Diodato consente anche di sottolineare due elementi rilevanti ai fini di un ripensamento della «Seconda Repubblica» e della crisi – politica, economica e sociale – che l’Italia sta vivendo oggi (e che probabilmente continuerà a vivere nel prossimo futuro). In primo luogo, l’esame compiuto dal politologo consente di smantellare alle radici l’idea che il vincolo europeo sia imputabile ad attori esterni, siano essi la «tecnocrazia» di Bruxelles o la Germania di Angela Merkel. Benché infatti l’evocazione di questi ‘nemici’ torni spesso nella retorica di vecchi e nuovi critici dell’Europa e dell’euro, deve essere ben chiaro che l’assetto odierno dell’Unione – un assetto che certo ha prodotto vantaggi in termini relativi per l’economia tedesca, e che inoltre assegna realmente un ruolo significativo alla burocrazia di Bruxelles – è l’effetto di decisioni prese dai singoli governi nazionali, tra cui ovviamente si trovavano gli stessi esecutivi italiani (i quali anzi furono a lungo i più europeisti del Vecchio continente). In secondo luogo, la ricostruzione compiuta da Diodato suggerisce di considerare Maastricht in una nuova luce: se forse gli effetti che avrebbe prodotto il Trattato furono sottovalutati da una classe politica ‘distratta’, spiazzata dal mutamento epocale del 1989 e ormai prossima al proprio capolinea storico, essi furono invece ben chiari fin dal principio a personaggi come Carli, cui non casualmente Diodato assegna in qualche modo il ruolo, se forse non proprio di ‘artefice’, comunque di ideologo del nuovo «vincolo esterno» europeo. In qualche misura, infatti, il Trattato di Maastricht e i famigerati parametri che oggi vengono da più parti liquidati come insensati e perniciosi furono consapevolmente perseguiti e appoggiati da una componente (forse minoritaria ma non irrilevante) della classe dirigente italiana, rappresentata proprio da Carli, che vide in quella cornice il «vincolo esterno» capace di ‘disciplinare’ tanto la società italiana quanto una classe politica ‘culturalmente’ ostile ai principi dell’economia di mercato. In sostanza – e da questo punto di vista è sufficiente rileggere le memorie di Carli – Maastricht fu percepito come quello strumento con cui ‘sterilizzare’ la democrazia italiana, sottraendo alla classe politica nazionale (e dunque, indirettamente, agli stessi elettori), una serie di decisioni cruciali in campo economico. Ma, soprattutto, fu concepito come lo strumento con cui poter finalmente risolvere quella grande contraddizione che si era aperta nel 1957, e di cui Carli aveva esposto la gravità già nella sua vecchia intervista a Scalfari sul finire degli anni Settanta. Se allora l’Italia aveva aderito alla Cee conservando però la propria diffidenza per le regole della competizione economica, Maastricht offriva finalmente lo strumento con cui ‘educare’ gli italiani e la classe politica del Belpaese alla ‘cultura’ del capitalismo. E, dunque, l’unificazione monetaria rappresentava agli occhi di Carli quella strada che avrebbe definitivamente ‘costretto’ l’Italia a essere ‘virtuosa’, uscendo così dalle secche in cui – secondo la lettura dell’ex governatore della Banca d’Italia – si era arenata a partire dal 1969.
Il lavoro di Diodato consente oggi di comprendere come quella scelta, che certo fu anche il prodotto di una serie di circostanze contingenti, scaturisse da una visione complessiva, che ovviamente trovava nella garanzia offerta dal «vincolo esterno» il tassello cruciale. Sarebbe interessante ridisegnare le geometrie politiche dell’intera vicenda della «Seconda Repubblica» ponendo in primo piano proprio la difesa del «vincolo esterno» (o la sua contestazione), perché alla luce di una simile indagine probabilmente tutte le più consuete linee di divisione dovrebbero essere abbandonate in favore di una nuova mappa di alleanze. Forse però oggi le condizioni sono ormai mature anche per valutare gli esiti di quel grande progetto ‘ortopedico’ e ‘pedagogico’ che Carli si proponeva con l’idea di un nuovo «vincolo esterno». A questo proposito, non si può negare che Carli non avesse colto nel segno, individuando nel Trattato di Maastricht un dispositivo che avrebbe cancellato gran parte dell’autonomia di cui la classe politica aveva potuto disporre in precedenza. E, inoltre, Carli aveva anche compreso nitidamente che proprio il «vincolo esterno» avrebbe favorito la progressiva eliminazione di quei due fattori cui nell’Intervista sul capitalismo degli anni Settanta aveva attribuito il «deterioramento» della situazione italiana e la distruzione dello «spirito imprenditoriale»: lo Statuto dei lavoratori e «la rigidità della forza-lavoro». Ma, se per quanto concerne il livello ‘interno’, la strategia di Carli sembra aver pienamente raggiunto gli obiettivi principali, per quanto attiene invece la dimensionale ‘esterna’ le cose sono molto diverse. Perché Maastricht e la moneta unica hanno inferto – e sarebbe impossibile negarlo – un colpo davvero duro alla competitività economica italiana, oltre che alla stessa società italiana e, ovviamente, alla vitalità delle istituzioni democratiche. Quello «spirito imprenditoriale» di cui Carli auspicava la rinascita non ha d’altronde mai ripreso il vigore sperato, e una parte della ‘nuova classe dirigente’ italiana ha semmai mostrato una marcata vocazione predatoria e una predilezione per la rendita (ed è sufficiente pensare alla tragica vicenda delle ‘privatizzazioni’ degli anni Novanta per averne una conferma).
Al termine del suo lavoro, Diodato concede ancora qualche margine alla possibilità che l’Italia riesca a rovesciare a proprio favore il vincolo esterno, nonostante una notevole mole di indicatori (relativi alla competitività e allo sviluppo umano) sembri fornire un quadro piuttosto cupo, e nonostante la perdita di gran parte del residuo prestigio internazionale sia ormai innegabile. «L’Italia deve fare i conti con i suoi ritardi rispetto alla modernità, e fino a quando non riuscirà a immaginare se stessa come una nazione europea, quindi ad assumere una linea di politica estera che, senza cancellare il vincolo monetario, riesca a gestirlo e governarlo, difficilmente riuscirà a frenare l’inerziale indebolimento e la perdita di prestigio» (p. 156). E in vista di un simile obiettivo, suggerisce Diodato, potrebbe forse aprirsi una finestra di opportunità quando in sede europea saranno finalmente considerati i problemi della periferia. Ma naturalmente – e su questo punto è legittimo essere più pessimisti di Diodato – è proprio tale condizione che rimane per molti versi improbabile, rendendo la ‘chiusura del cerchio’ un’operazione pressoché impraticabile. Non certo perché non siano chiari gli squilibri economici e perché non esistano ipotesi d’azione concreta. Ma perché non sembra affacciarsi all’orizzonte nessuna di quelle condizioni che potrebbero sbloccare lo stallo dell’Unione Europea, modificando così la netta contrapposizione fra Nord e Sud. E proprio per questo motivo, diventa molto più plausibile il rischio che il «vincolo esterno» – quel vincolo in cui Carli prefigurava la salvezza dell’Italia – si tramuti per molti nel simbolo stesso di una democrazia morente e di una società in decomposizione.
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