di Diletta Paoletti

Partito di lotta, partito di governo e ancora partito di lotta: ecco, in breve, l’ondivago percorso politico della Lega Nord che in queste ore si dichiara, orgogliosa, partito di opposizione, quasi a tirare un sospiro di sollievo dopo che – negli ultimi mesi – non poco malcontento era stato espresso dalla base, stufa di Berlusconi e dei suoi scandali, ben lontani dalle esigenze del popolo delle partite IVA, del lavoro autonomo e della piccola media impresa.

La doppia personalità, ben inteso, non è una novità nel panorama politico italiano: Pci docet. Proprio il Partito comunista, infatti, riuscì – per primo – ad integrare carica antagonista e responsabilità di governo. E non è una novità nemmeno per il Carroccio: lo stesso Bossi aveva parlato – già nel lontano ’93 – di “Lega di lotta e di governo”, formula presa a prestito proprio dal lessico comunista (fu inventata, ça va sans dire, da Berlinguer). Ed ecco che, oggi, alla Lega occorre – per recuperare consensi – niente meno che recuperare il passato.

Per alcuni esempio virtuoso (ha saputo trasformarsi senza perdere i suoi caratteri identitari di fondo), per altri ennesima dimostrazione (tutta italica) di pratiche, per così dire, trasformistiche, la Lega Nord – formazione territoriale per eccellenza (il suo radicamento sul territorio fa invidia ad altri) – era, eccome, un partito di lotta, intriso di antipolitica. Nel corso degli anni ’90, infatti, la principale mission politica del “Carroccio prima maniera” è stata – oltre, ovvio, al tentativo di autonomizzazione delle regioni settentrionali – proprio quella di canalizzare e cavalcare la contestazione alla politica italiana, il disprezzo montante per i partiti tradizionali e per le altrettanto tradizionali pratiche e consuetudini politiche: il tutto condito con una buona dose di intolleranza sociale (principalmente contro immigrati e meridionali). Riuscendo persino ad intercettare la domanda di rappresentanza prima destinata ad altri partiti (basti pensare ai successi ottenuti sull’elettorato di matrice operaia, bacino esclusivo – fino a quel momento – della sinistra).

È così che la Lega (con il suo misto di populismo ed etnoregionalismo, fino a quel momento inedito per l’Italia) non ha esitato ad entrare – più volte – nelle tanto disprezzate stanze dei bottoni di “Roma ladrona”, occupando ministeri importanti, come quello degli Interni, solo fino ad un mese fa in mano a Roberto Maroni. Ma oggi, tutt’altra musica e la Lega si è decisa a ritornare alla lotta e ad abbandonare il governo. Crisi di identità? Niente affatto, semplice prevalere – a seconda di dove tira il vento – dell’una o dell’altra anima del Carroccio. Ecco allora che, tra secessione e federalismo, tra un ribaltone e una ricostruita alleanza, si arriva al turbolento scenario attuale.

Ma il nuovo smalto antagonista nasconde non pochi problemi, in primis quello della leadership: oggi più che mai, all’interno del Carroccio, sembra incrinarsi la tradizionale venerazione del leader. Legame – quello tra capo e militanti leghisti – solitamente forte, tanto forte da sfiorare il culto della personalità. Oggi però il Senatùr comincia a non essere più la stella polare del movimento e i nodi vengono al pettine. Nonostante i sorrisi di circostanza, le foto di rito e le energiche smentite – le divisioni esistono, eccome, e sono sempre più quelli che confluiscono nelle fila maroniane. L’ex capo del Viminale, del resto, non è nuovo a strappi interni: nel ’94, all’indomani del celebre “ribaltone”, ce ne volle per ricucire la ferita aperta proprio da Maroni.

Fronde interne a parte, a simboleggiare il rinnovato “vigore” leghista (per non usare altre espressioni, ben più colorite, cui eravamo stati abituati), sono gli slogan del passato, oggi rispolverati. A partire dalla parola d’ordine della secessione (non cruenta, però, aggiunge Calderoli), per arrivare all’idea delle macroregioni, teorizzate a suo tempo da Gianfranco Miglio. E, dulcis in fundo, a Vicenza ha riaperto – pochi giorni or sono – il Parlamento del Nord, una delle creazioni di quella “invenzione della tradizione” che andò in scena tra il 1995 e il 1997, quando una Lega in calo di consensi, decise di costruire – a tavolino – l’ideale artificiale e artificioso della Nazione Padana. Come si suol dire, a volte ritornano.

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