di Alessandro Campi*

Per Gianni Alemanno, diversamente dagli altri candidati in corsa per il Campidoglio, la posta in gioco dell’imminente sfida elettorale ha un rilievo politico duplice: locale (ammesso che governare la capitale d’Italia possa avere, in primis per il Pdl, un significato soltanto locale) e nazionale. Da un lato deve convincere i cittadini romani a confermargli la fiducia ottenuta cinque anni fa, spiegando loro che la sua sindacatura – piena in effetti di errori e occasioni mancate – è stata a conti fatti meno catastrofica di come la raccontano gli avversari più risoluti e la stampa che gli spalleggia (basti un’occhiata alla copertina dell’ultimo fascicolo de “L’Espresso”). Dall’altro, Alemanno è l’ultimo esponente della destra italiana – quella che provenendo dal Msi ha poi dato vita per tre lustri all’esperienza di Alleanza nazionale – che possa ancora aspirare ad una carica pubblica di una certa importanza e a giocare un qualche ruolo a livello nazionale. Ed è su quest’ultimo aspetto che forse vale la pena fare qualche ragionamento.

Sfuggita alla furia demolitrice di Tangentopoli, avendo avuto il Msi un potere irrisorio durante la Prima Repubblica, la destra cosiddetta post-fascista ha goduto, grazie all’alleanza stretta nel frattempo con Silvio Berlusconi, un ventennio di successi elettorali e fasti mondani. Quelli che sono stati definiti, con una bella immagine, “esuli in patria”, durante la Seconda Repubblica si sono presi una rivincita storica su chi per un cinquantennio li aveva tenuti ai margini della comunità nazionale considerandoli dei reietti o dei sopravvissuti del passato. In questo periodo, gli uomini di An non solo hanno avuto accesso a più riprese alla stanza dei bottoni, nel governo centrale e in un gran numero di amministrazioni locali, ma hanno conquistato una visibilità/rispettabilità che mai avevano avuto e hanno visto pienamente legittimate, a livello di pubblica opinione, le loro posizioni politico-ideali, per deboli o sommarie che fossero.

Sennonché l’accesso ad un potere che per lungo tempo era stato loro negato ha come trasfigurato o inebetito gli esponenti (dirigenti e militanti) di un mondo che, rispetto alla deprecata partitocrazia, si era sempre vantato di ispirare la propria azione a valori alti e nobili: il senso dello Stato, il merito individuale, la fedeltà alla parola data, l’onestà, la difesa del bene pubblico, l’indifferenza alle prebende e agli agi materiali.

Convertitasi al pragmatismo e ad un agire spesso spregiudicato, avendo dichiarato morte le ideologie e valutato improponibile qualunque richiamo esplicito alla propria cultura di provenienza, per non attirarsi l’accusa di nostalgismo, e non avendo nel frattempo elaborato una nuova base ideale e programmatica, non avendo fatto alcuno sforzo di ripensamento critico della propria tradizione ideologica, questa destra nel corso degli anni si è come progressivamente svuotata: insterilita sul piano culturale, umanamente ed interiormente immiserita, indebolita sul piano della tenuta morale allorché è stata chiamata a responsabilità istituzionali, infine fiaccata politicamente, anche a causa del rapporto di subalternità/sudditanza che ha finito per stabilire da un lato col berlusconismo e dall’altro con la Lega, dai quali – ancorché alleati – ha smesso di distinguersi.

Il risultato – una volta fallito il tentativo finiano, probabilmente tardivo, secondo molti mal congegnato e velleitario, di restituire autonomia politica e una minima capacità di elaborazione culturale a questo mondo, nel frattempo confluito in larga parte sotto le bandiere di un Pdl totalmente egemonizzato dal Cavaliere – è stato quello che si è visto alle elezioni politiche dello scorso febbraio. La destra, nelle sue diverse espressioni organizzative e partitiche, ne è uscita polverizzata e marginale come mai era stata nella sua storia. I suoi rappresentanti in Parlamento, peraltro tagliati fuori da qualunque incarico, sono appena una decina.

Oggi, dopo lo shock iniziale e uscito mestamente di scena Gianfranco Fini, l’uomo sul quale è stata fatta comodamente ricadere la colpa esclusiva di un esito collettivamente tanto disastroso, si parla di rimettere insieme i cocci sparsi di questa comunità politica. E Alemanno, nel caso dovesse riconquistare il Campidoglio, parrebbe l’uomo giusto – per il prestigio e i mezzi che gli deriverebbe dal ruolo – sul quale puntare per una simile operazione. Tenendo anche conto che Roma è, per antiche ragioni storiche, la patria d’elezione della destra italiana in tutte le sue possibili espressioni: un simbolo identitario, un richiamo mitologico e ancestrale, prim’ancora che un terreno dove affondare le proprie radici organizzative e dove formare i propri ranghi.

Ma l’obiettivo di ricomporre la diaspora di questo mondo, rimettendo insieme quel che ne rimane, forse richiederebbe un’operazione preventiva di chiarimento sulle ragioni che hanno prodotto la sua débâcle. Per evitare che tutto si risolva, ammesso poi che l’operazione riunificatrice riesca, in un abbraccio nostalgico, inevitabilmente strumentale, tra reduci che temono per la propria sopravvivenza bisognerebbe insomma fare prima un collettivo e pubblico esame di coscienza, che sinora è del tutto mancato. Il che equivarrebbe a chiedersi, ad esempio, cosa non ha funzionato – sul piano politico-culturale – nella nascita, nell’azione e nelle scelte di Alleanza nazionale, un partito che in vent’anni non ha mai visto modificarsi il suo gruppo dirigente. A interrogarsi sulla natura del rapporto che la destra italiana ha stretto con Berlusconi e il berlusconismo (quanto è stato al dunque soffocante e/o penalizzante, dopo l’euforia e gli indubbi benefici seguiti all’operazione di sdoganamento operata e sempre vantata dal Cavaliere?). A domandarsi quale sia stato il senso autentico del tentativo di smarcamento da quest’ultimo condotta da Fini, invece di apostrofarlo come il traditore per eccellenza di una fazione politica che psicologicamente sembra non essersi mai emancipata dalla “sindrome di Badoglio” e dalla necessità, dinnanzi alle proprie sconfitte e manchevolezze, di cercare sempre il fellone cui appiccicare l’etichetta di voltagabbana.

Ridotta all’irrilevanza, ad un passo dalla scomparsa, la destra auspica la propria resurrezione e per ciò confida – extrema ratio – nel successo di Alemanno. Ma in attesa del miracolo, mentre si infittiscono, a leggere le cronache, i conciliaboli e le riunioni per ricostruire la vecchia e gloriosa casa madre e dare ancora una speranza a dirigenti frustrati e simpatizzanti delusi, perché essa non prova a spiegare a se stessa e agli italiani come è potuto succedere che coloro che cantavano “il domani appartiene a noi” si siano ridotti a deambulare, senza meta e a schiena bassa, in mezzo alle rovine? Colpa del destino che è sempre ingrato o più semplicemente dei propri errori, grossolani e reiterati? E in quest’ultimo caso non sarebbe politicamente saggio renderne pubblicamente conto, in modo autocritico, per rimediarli se ancora possibile o per evitare di ripeterli caso mai la fortuna dovesse offrire alla destra italiana una nuova occasione per rendersi protagonista sulla scena politica nazionale?

* Articolo apparso su “Il Foglio” (Roma) del 21 maggio 2013, con il titolo Come si rifà un sindaco. Gli esuli in patria, il rischio scomparsa e il vero senso della sfida di Alemanno

 

 

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