di Davide Parascandolo
Il Consiglio europeo svoltosi nei giorni scorsi, incentrato sui temi della difesa comune, dell’economia e dei flussi migratori, ha accolto favorevolmente l’accordo che l’Ecofin (l’organo che raggruppa i ministri dell’economia e delle finanze dell’Unione europea) ha raggiunto, nella notte tra il 18 e il 19 dicembre, per dare attuazione alla tanto attesa Unione bancaria, da molti considerata un passo decisivo nel tortuoso percorso verso una sempre più accentuata integrazione europea. L’intesa, che dà avvio al cosiddetto Meccanismo unico di risoluzione e che sarà sottoposta entro la fine dell’attuale legislatura all’approvazione dell’Europarlamento, per la verità piuttosto critico circa la modalità intergovernativa dell’accordo e in possesso di specifiche prerogative legislative intenzionato a far valere, prevede in sostanza la rinuncia da parte degli Stati contraenti di una ulteriore fetta di sovranità.
Nel dettaglio, si prevede il trasferimento della vigilanza sugli istituti di credito nelle mani della Banca centrale europea, con l’obiettivo dichiarato di slegare il vincolo che ha unito sinora le crisi finanziare ai debiti pubblici degli Stati, chiamati a ripianare le enormi falle degli istituti creditizi. La ratio che sottostà all’accordo prevede una progressiva mutualizzazione di un Fondo comune creato ad hoc per il salvataggio delle banche, strutturato in compartimenti nazionali e finanziato da prelievi sugli istituti di credito di ogni Paese. La decisione di salvare o liquidare un istituto bancario sarà invece affidata ad un Organismo unico di risoluzione, un board composto dalle varie autorità nazionali che agirà su impulso della Bce.
Il progetto, alquanto macchinoso, prevede che il Meccanismo unico di risoluzione cominci ad operare a partire dal 1°gennaio 2015. Un anno più tardi entrerà in funzione il meccanismo del bail-in (salvataggio interno). Questo imporrà alle banche stesse di coprire le eventuali perdite, fino ad un tetto pari all’8% dei loro assets, ricorrendo ai capitali dei propri azionisti, degli obbligazionisti e dei possessori di depositi oltre i 100 mila euro. Soltanto per fronteggiare perdite superiori dovrebbe intervenire il Fondo comune, il quale tuttavia non sarà attivo né finanziato totalmente se non a partire dal 2025. In questo lungo periodo di limbo, l’Italia è riuscita a strappare alla Germania la clausola del backstop, ovvero del paracadute. In caso sia necessario un salvataggio, lo Stato potrà richiedere una sorta di prestito ponte ad altri Stati che dovrà comunque essere rimborsato dalla banca oggetto dell’aiuto. In alternativa, si potrà richiedere un prestito al MES (Meccanismo Europeo di Stabilità, meglio conosciuto come fondo salva Stati) o ricorrere a prestiti tra i compartimenti nazionali, i quali dopo dieci anni dovrebbero essere unificati nel Fondo comune in questione.
Ma di falle questo accordo sembra presentarne parecchie. A ben vedere infatti, il Fondo, se e quando sarà effettivamente attivato, avrà una portata estremamente limitata, con un capitale a disposizione di soli 55 miliardi di euro, bazzecole se paragonati ai 700 miliardi del MES, cui guardava in realtà proprio il Parlamento europeo come una sorta di prestatore unico. L’accordo inoltre sembra dividere il mercato finanziario europeo in due blocchi distinti, con i grandi istituti di credito sorvegliati dalla Bce e quelli più piccoli lasciati sotto la supervisione dei governi nazionali, in primo luogo al livello locale e regionale, dimenticando che (si veda il caso spagnolo) anche le piccole banche possono ingenerare effetti sistemici di rilievo. Su questo punto tuttavia vi è l’evidente intervento della Germania, decisa a nascondere il cattivo stato finanziario in cui versano le proprie banche regionali (Landesbanken), con l’intento di evitare qualsiasi tipo di ingerenza esterna. Un’altra criticità è poi rappresentata dal ruolo sempre più ibrido rivestito dalla Bce. Nella fattispecie, all’ambiguità di non essere il tesoriere di alcun potere sovrano, si sovrapporrà ora l’incompatibilità tra l’obiettivo statutario di garantire la stabilità dei prezzi e il nuovo compito inerente la sorveglianza bancaria. In effetti, qualora il contenimento dell’inflazione dovesse imporre un innalzamento dei tassi di interesse, una tale operazione potrebbe far precipitare nel dissesto alcune banche già in difficoltà. Se dunque dovesse palesarsi una simile eventualità non sarebbe certo semplice capire quali linee e comportamenti la Bce potrà adottare. A tutte queste riflessioni se ne potrebbero aggiungere delle altre, a partire da quella sulla dubbia compatibilità di questa ennesima cessione di sovranità con i dettami costituzionali nazionali, con particolare riferimento a quelli riguardanti la tutela del risparmio contenuti nell’art. 47 dove, al 1° comma, si legge testualmente: “La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito”.
Non è questa la sede per ripercorrere tutte le altre violazioni che i trattati europei, con il benestare delle nostre classi politiche, hanno posto in essere nei confronti della nostra Costituzione, ma è bene rammentare che il processo di spoliazione delle prerogative nazionali va avanti senza che si levino voci significative a loro difesa. Le uniche voci ad essersi levate per le strade di Bruxelles sono quelle della protesta, alle quali si contrappongono i vuoti proclami che ancora una volta si possono leggere scorrendo le pagine delle conclusioni del Consiglio. Nella sezione dedicata ai “partenariati per la crescita, l’occupazione e la competitività”, dove peraltro si è fatta strada l’idea di implementare accordi contrattuali per impegnare un Paese ad adottare riforme economiche in cambio di aiuti finanziari, idea al momento accantonata per sedare sicuri malumori in vista delle elezioni europee, si parla di incentivare crescita, investimenti, occupazione; di lotta alla disoccupazione giovanile, di competitività, di erogazione di prestiti all’economia e in particolare alle PMI. E tutto questo peraltro proprio mentre l’impietosa Standard & Poor’s declassa l’Unione negandole la fantomatica “tripla A”. La realtà è che la miope politica economica dell’Ue sta generando sempre maggiore miseria e sofferenza, disattendendo tutte le dichiarazioni di principio. E i popoli europei ne sono ormai coscienti.
Al di là dei soliti trionfalismi di facciata (pochi a dire il vero), molti ritengono pertanto che quello raggiunto sull’Unione bancaria sia in realtà il solito compromesso, specchio di un’Europa unita solo sui principi e a parole, ma profondamente divisa sui mezzi concreti da adottare. Non è un caso che gli obiettivi siano stati dilazionati nel tempo, con la messa a regime dello strumento decisivo, ovvero il Fondo comune, prevista non prima del 2025. Ma, si sa, “nel lungo periodo saremo tutti morti”, come recita un celebre motto di John Maynard Keynes. E, in effetti, considerando i venti tumultuosi che spirano sulla costruzione di questa Unione europea, pensare così a lungo termine fa quasi sorridere.
Lascia un commento