di Federico Ottavio Reho 

europaDecenni di integrazione economica e, più di recente, l’unione monetaria, hanno creato in Europa uno spazio transnazionale caratterizzato da reciproca interdipendenza e in cui molte decisioni prese dalle autorità democratiche di un paese si ripercuotono ben oltre i confini nazionali. Coloro che subiscono le conseguenze di tali decisioni si trovano così spesso nell’impossibilità di controllare e sanzionare democraticamente chi le prende, in quanto questi è responsabile solo dinanzi agli elettori del suo paese. Le soluzioni possibili sono tre: a) smantellare l’unione monetaria per ridurre l’interdipendenza economica e le esternalità negative che da essa derivano; b) costruire una vera democrazia transnazionale in cui il cortocircuito tra chi prende certe decisioni e chi ne subisce le conseguenze sia superato; c) gestire l’interdipendenza economica con metodi intergovernativi, accettando però significative restrizioni degli spazi di libertà democratica nazionale. I leader europei sembrano inclini a perseguire la terza opzione e rischiano perciò di condannare i loro paesi ad un futuro post-democratico.

Se lo smantellamento dell’euro è stato escluso a causa dei suoi probabili costi politici ed economici, anche un impegno aperto dei leader europei per costruire una democrazia sovranazionale di vasta portata presenta difficoltà quasi insormontabili. In questi ultimi anni, si è spesso osservato come la crisi dell’euro abbia costretto i governi a promuovere iniziative di integrazione senza precedenti nella lunga storia dell’europeismo post-bellico. Si sono però trascurate le molte peculiarità che distinguono tali misure da quelle assunte nel precedente mezzo secolo. In primo luogo, esse non sono il frutto di una libera scelta ma il risultato delle irresistibili ripercussioni sistemiche della moneta unica, gli “spill-overs” della tradizione funzionalista. Durante la crisi del debito sovrano, tali effetti sistemici hanno vanificato ogni distinzione tra politica monetaria e fiscale e messo in luce l’inestricabile interconnessione trai sistemi finanziari, bancari ed economici dei paesi membri della zona euro. La necessità, per stabilizzare l’unione monetaria, di una qualche forma di unione bancaria, fiscale e di bilancio è stata avvertita con forza sempre maggiore e la moneta unica, originariamente introdotta come un simbolo importante ma rispettoso delle autonomie nazionali, si è tramutata nell’indesiderato sigillo di un destino comune dai costi imprevedibili e potenzialmente ingenti. In secondo luogo alcuni stati, e la Germania tra essi, considerano queste misure imposte dalle circostanze alla stregua di un male minore, certo preferibile alla sparizione dell’Euro ma pur sempre portatore di incertezze avvelenate. Essi sono riluttanti ad imprigionarsi in una unione politica perpetua con dei partner di cui diffidano e rispetto ai quali vogliono preservare il massimo spazio di manovra possibile. Vi sono poi ostacoli persino più formidabili alla trasformazione della zona euro in una vera federazione democratica. Particolarmente insidioso è il fatto che un impegno aperto dei leader europei per un’unione politica di stampo anche blandamente federale non sembra destinato a suscitare grandi entusiasmi nell’elettorato di molti stati membri. In verità, i referendum europei degli ultimi vent’anni rappresentano dei precedenti molto scoraggianti a questo riguardo: una maggiore integrazione è stata seccamente rifiutata quando la posta in gioco per le sovranità nazionali era ridicolmente piccola rispetto alle necessità di oggi. In alcuni importanti paesi, e particolarmente in Germania, si può prevedere una forte opposizione a ciò che verrebbe largamente percepito come una garanzia fornita dai paesi fiscalmente più responsabili alle prodighe cicale mediterranee. E’ questa la ragione per cui, se il sostegno dei leader europei alla moneta unica è veramente incondizionato, non è probabile che essi si risolvano a chiedere democraticamente l’opinione dei loro popoli. Per non parlare del fatto che nessuno sa realmente come organizzare una democrazia continentale europea capace di tenere tutti assieme e di regolare le spinose relazioni trai membri della zona euro e gli altri membri dell’Unione Europea.

Di fronte a questo oceano di difficoltà sconosciute e turbinose, mi sembra che i leader europei, invece di spiegare le vele e abbandonare i loro placidi porti, siano più inclini a restare sulla terraferma alla ricerca di scorciatoie. Ho anche l’impressione che le scorciatoie per loro più brevi e praticabili possano finire col trasformare la zona euro in una entità “post-democratica”. Non mi aspetto, sia ben chiaro, che i paesi della zona euro cadano presto preda di governanti illiberali e autoritari, abbandonando anche formalmente il loro sostegno alle istituzioni democratiche. Mi sembra però probabile che i loro reggitori cerchino anzitutto di schivare con destrezza i molti rischi che la situazione presenta, perseguendo, per rimediare alle numerose falle dell’unione monetaria, le soluzioni più opache e meno ambiziose e cercando poi di gestire al meglio le mutilazioni delle libertà democratiche nazionali che potrebbero conseguirne. In effetti, le iniziative degli ultimi anni sembrano scaturire proprio da questa strategia. Per esempio, in luogo di negoziare l’emissione congiunta di almeno una parte dei debiti pubblici nazionali in modo aperto e con tutte le garanzie democratiche del caso (in particolare il controllo parlamentare dei bilanci pubblici, che ha storicamente rappresentato la prima guarentigia delle assemblee rappresentative), si è preferito adottate misure per ottenere lo stesso effetto attraverso i bilanci della Banca Centrale Europea (BCE), ovvero nel modo meno trasparente e più apparentemente tecnico. Non è un mistero che il cancelliere tedesco abbia rifiutato ogni proposta di emissione congiunta di titoli del debito pubblico in quanto essa avrebbe ingiustificatamente impegnato il denaro del contribuente tedesco per finanziare spese effettuate in altri paesi. Può dunque sorprendere che, sin dal settembre 2012, Angela Merkel abbia entusiasticamente supportato la BCE nella sua decisione di comprare, a certe condizioni, quantità illimitate di titoli del debito pubblico dei paesi periferici, qualora ciò fosse necessario per diminuire i loro costi di rifinanziamento del debito. L’annuncio del programma speciale inaugurato a tale scopo dalla BCE e denominato “Outright Monetary Transactions” (OMT) ha certamente avuto il merito di abbattere i costi di rifinanziamento allontanando gli avvoltoi finanziari che già planavano sulle convulse membra dell’unione monetaria. Tuttavia, dato che gli acquisti previsti verrebbero effettuati attraverso i bilanci della BCE, il cui primo contributore è la Deutsche Bundesbank (la banca centrale tedesca) e dunque, in ultima istanza, il contribuente tedesco, ci si sarebbe aspettati che la signora Merkel contrastasse questa decisione con fermezza persino maggiore della stessa Bundesbank, che si era in effetti apertamente opposta. Perché ciò non è accaduto? Dopotutto, ciò che la BCE si è mostrata disponibile a fare rappresenterebbe, da un punto di vista strettamente economico, nulla più di un surrettizio sussidio alle cicale mediterranee finanziato coi denari delle formiche nordiche, in particolare coi denari tedeschi. Il punto è proprio questo: si tratterebbe di un sussidio surrettizio, non di un sussidio palese; ben pochi cittadini tedeschi sarebbero in grado di riconoscerlo come tale e di censurare il loro cancelliere per averlo avallato. La signora Merkel sapeva che, al fine di preservare l’integrità della zona euro, qualcosa doveva essere fatto per diminuire i proibitivi costi di rifinanziamento del debito imposti dagli operatori finanziari ai paesi in difficoltà. Tuttavia, il cancelliere ha preferito che fosse la BCE a sporcarsi le mani, piuttosto che assumersi in prima persona la responsabilità politica di misure analoghe nei loro effetti ma agenti per via fiscale e non monetaria.

Un altro segno della stessa strategia mi sembra la natura della nuova “governance” economica europea emersa negli ultimi anni. I suoi pilastri principali sono un trattato internazionale (il cosiddetto “Fiscal Compact”), nuovi regolamenti e direttive di diritto dell’Unione Europea (il cosiddetto “Six Pack”) e un accordo politico (“Euro Plus Act”). Queste nuove regole hanno di fatto introdotto una forma di cogestione di tutte le economie nazionali della zona euro in cui le autorità democratiche dei singoli stati membri vedono svanire le loro vecchie discrezionalità in materia di politica economica e debbono sottostare all’implacabile scrutinio della Commissione Europea. Negli ultimi anni, tutti gli europei hanno sperimentato fino a che punto decisioni prese dai governi dei singoli paesi in completa autonomia possano diffondere i loro devastanti effetti ben oltre i confini nazionali e scuotere l’unione monetaria dalle fondamenta. La crisi del debito greco, per esempio, non ha impiegato molto a farsi strada negli angusti interstizi della zona euro terrorizzando l’intero continente con lo spettro del contagio. Questo mostro dagli arti ossuti ha stretto molti paesi in un abbraccio mortifero, da cui alcuni ancora stentano a riprendersi. Le misure di cogestione adottate sono perciò ampiamente giustificate dal bisogno di evitare gli effetti sistemici più devastanti di certe decisioni nazionali. Purtroppo, invece di creare ambiziose strutture democratiche sovranazionali per governare l’interdipendenza economica e le esternalità negative ad essa associate, i leader europei hanno preferito limitare le libertà dei governi e dei parlamenti in materia di politica economica, vincolandole ad un rigido quadro di regole e di controlli tecnocratici. In altre parole, ancora una volta la scorciatoia più comoda per lasciarsi la crisi alle spalle rischia di rivelarsi “post-democratica”.

Queste malaugurate decisioni e la mancanza di coraggio che le ha ispirate non lasciano presagire un avvenire radioso per le democrazie europee e per la zona euro. Essa rischia di diventare un’entità ibrida, in cui sempre più politiche pubbliche sono amministrate da istituzioni tecnocratiche in modo opaco e senza strumenti democratici di contestazione e cambiamento pacifico, mentre i leader politici rifuggono dalle loro responsabilità nei confronti degli elettori e i rituali vuoti delle democrazie nazionali vengono mantenuti in vita per ragioni cerimoniali; un’entità in cui nessun governante democratico nazionale è immune dalle pressioni politiche e finanziarie dei suoi partner tutte le volte che prende decisioni di una qualche importanza per essi (ed è molto probabile che ciò accada di continuo in una unione economica e monetaria integrata come quella europea); un’entità dove la sovranità fiscale dei parlamenti nazionali è formalmente mantenuta ma sostanzialmente ristretta da vincoli giuridici e controlli tecnocratici, per paura che un parlamento sovranazionale con poteri pieni e responsabile per un bilancio federale adeguato possa ostacolare le opache manovre dei gabinetti nazionali; un’entità dove, in assenza di un forte bilancio centrale controllato da istituzioni democratiche sovranazionali, ogni volta che alcuni paesi hanno bisogno di assistenza finanziaria per far fronte a improvvise difficoltà economiche che rischiano di destabilizzare l’unione monetaria, i fondi vengono erogati attraverso il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) o, nel caso di risorse insufficienti, attraverso appositi accordi intergovernativi di salvataggio, in modo da assicurare che prendano la forma di prestiti e non di trasferimenti permanenti. In nome della democrazia nazionale, queste transazioni saranno soggette ai poteri di veto di ogni governo, oltre che a rigide condizioni di politica economica e fiscale monitorate da funzionari internazionali senza grande riguardo per le libertà democratiche dei singoli parlamenti. In questo scenario, i paesi finanziariamente più deboli potrebbero ben restare per lungo tempo in quella sorta di limbo democratico a cui si sono abituati negli ultimi anni, con i tecnocrati europei che calano periodicamente da Bruxelles e Francoforte per vigilare sul loro operato. Questa situazione potrebbe andare incontro agli interessi dei paesi più forti meglio di quanto non esaudisca i voti dei più deboli. Tuttavia, tutte le democrazie europee finiranno col perderci. C’è dunque da sperare che i leader europei mostrino un briciolo di ardimento e accettino coraggiosamente la sfida della democrazia transnazionale.

 

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