di Francesco Battegazzorre*
Lo scorso 2 settembre è prematuramente scomparso Giorgio Fedel, scienziato della politica tra i più originali della scena accademica italiana. Quello che segue è il ricordo della sua opera e della sua figura scritto da Francesco Battegazzorre, che di Fedel è stato allievo, amico e collega.
Professore di Analisi del linguaggio politico e di Comunicazione politica, e poi per vari anni di Scienza politica, nella Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Pavia, Giorgio Fedel si colloca nella tradizione di studi politici dell’Ateneo pavese, sull’orma tracciata da nomi illustri: Bruno Leoni, Mario Albertini, Mario Stoppino. Di quest’ultimo Fedel fu allievo diretto, e ne raccolse l’opera al momento della scomparsa, succedendo al maestro sulla cattedra di Scienza politica, e prendendo e mantenendo salda la direzione delle attività e istituzioni fondate da Stoppino: il dottorato di ricerca in Scienza politica, il Centro Interuniversitario di Analisi dei Simboli e delle Istituzioni Politiche (CASIP), il Seminario permanente di Teoria politica, la rivista “Quaderni di scienza politica”. A queste, altre ne aggiunse, con inesauribile creatività: l’istituzione dell’annuale Lectio in memoria di Mario Stoppino, che giunge quest’anno alla sua sesta edizione, l’organizzazione di un importante Convegno sull’opera del maestro (2002), cui fece seguito la pubblicazione di un ricco volume di scritti, e poi la realizzazione a Pavia, per la prima volta, del Convegno annuale della Società italiana di Scienza Politica (2008), che è culminato nella cerimonia del conferimento della laurea honoris causa da parte dell’Ateneo pavese a Theodore J. Lowi. Negli ultimi tempi è intervenuto più volte nel dibattito pubblico, pubblicando editoriali su diversi quotidiani nazionali.
Ma Giorgio Fedel è stato, prima e sopra tutto, un intellettuale animato da una vocazione appassionata ed esclusiva per l’atto del conoscere. La cultura vasta e profonda, l’eleganza apparentemente naturale – ma incessantemente coltivata – della parola e della scrittura, le non comuni capacità analitiche, si sono riversate in un’opera scientifica che si è misurata con temi di frontiera della scienza politica. Al cuore dei suoi interessi conoscitivi è stata sin dall’inizio una tematica vasta e saliente, perché onnipresente e connaturata alla condizione umana: la questione della parola, del significato, dell’esperienza comunicativa come tratti qualificanti dell’homo sapiens. Questa predilezione ha condotto la sua indagine su due direttrici, distinte e complementari: un’opera di scavo a tutto campo nelle diverse branche del sapere che, a vario titolo, fanno di quella tematica il centro della propria ricerca (dalla psicologia all’antropologia, dalla critica letteraria alla massmediologia, dalla filosofia del linguaggio all’ontologia, all’epistemologia, all’estetica, ecc.), messa al servizio della riflessione sui caratteri specifici, distintivi, che la dimensione del significato, del linguaggio, del simbolo assume nell’ambito della politica. Tale duplice orientamento si rintraccia già nei lavori giovanili, nell’applicazione di strumenti analitici tratti dalla nuova retorica all’analisi del linguaggio politico (Alcune categorie di Perelman e Olbrechts-Tyteca applicate al discorso politico, ne “Il Politico”, XLII, 1977, pp. 267-89, e Per uno studio del linguaggio di Mussolini, ne “Il Politico”, XLIII, 1978, pp. 467-95) e spicca specialmente, per larghezza della prospettiva e profondità dell’analisi, nel volume Simboli e politica (Napoli, Morano, 1991).
In questo volume, che è il suo capolavoro, Fedel fa i conti con i pochi contributi offerti dalla scienza politica sul tema del simbolismo politico, soffermandosi specialmente su quegli autori che, come Harold D. Lasswell e Murray Edelman, hanno attribuito importanza al tema e l’hanno sviluppato sul piano teorico. I risultati di questa esplorazione, rielaborati creativamente, trovano il loro momento di sintesi nel fondamentale saggio Sul linguaggio politico (in “Quaderni di scienza politica”, I, 1994, pp. 353-94), e possono essere sinteticamente riassunti nel rifiuto, da una parte, di due pregiudizi diffusi in letteratura – il panpoliticismo, per cui il linguaggio politico non avrebbe caratteri suoi propri, ma coinciderebbe con il linguaggio tout court, visto come strumento di dominio e controllo sociale; e il patologismo, per cui il linguaggio politico implicherebbe la distorsione sistematica della funzione comunicativa –; dall’altra parte, in positivo, nell’individuazione di un nesso specifico tra linguaggio e politica, determinato dall’impatto che il contesto politico, nelle sue componenti fattuali extralinguistiche, esercita sulla dimensione comunicativa e simbolica, piegandola ai suoi fini.
I lavori successivi, di taglio sia teorico che empirico, raccolti in parte nei Saggi sul linguaggio e l’oratoria politica (Milano, Giuffrè, 1999), e in parte pubblicati sui “Quaderni di scienza politica” nel corso del primo decennio degli anni 2000, mirano a trovare conferme della validità di tale impostazione, e contribuiscono a definire compiutamente il profilo di uno studioso la cui eredità intellettuale costituisce un punto di riferimento imprescindibile per chiunque voglia accostare queste tematiche in ottica di teoria politica.
* Docente di Politica comparata e Teoria politica generale nell’Università degli studi di Pavia.