di Alessandro Campi
Adesso che stiamo per consegnargli il governo dell’Italia (a soli 39 anni, gli stessi che aveva Mussolini quando divenne a sua volta presidente del Consiglio, ma si tratta, va da sé, di una notazione più divertita e irriverente che maliziosa o cattiva) dovremo pur farci la domanda: ma chi è Matteo Renzi? Il politico certo, ma anche l’uomo, anche se le due cose probabilmente coincidono quando, come nel suo caso, la politica si confonde con la propria vita e l’assorbe per intero.
I tratti, momenti e personaggi salienti della sua biografia sino ad oggi sono noti: il babbo democristiano, la formazione giovanile nel mondo scout, la fede cattolica vissuta senza complessi, i quasi cinquanta milioni vinti appena diciannovenne partecipando alla Ruota della fortuna, la laurea in giurisprudenza, la moglie insegnante di liceo (discreta e precaria) che gli ha dato tre figlioli, la passione calcistica per la Fiorentina, un senso della famiglia invero nel segno della tradizione.
Politicamente, lo si continua a definire un ex-democristiano, ma quando nel 1996 lui esordì con i Comitati Prodi la Dc storica già non esisteva da un pezzo. Ha bruciato le tappe e anche questo è noto: segretario provinciale del Ppi nel 1999, coordinatore fiorentino della Margherita nel 2001, presidente della provincia di Firenze dal 2004 al 2009, sindaco di Firenze dal giugno 2009, dal dicembre 2013 segretario nazionale del Pd. Poltrone conquistate lottando sul campo, che nessuno gli ha regalato, ed è stato questo – come ora si è capito – il suo vero punto di forza.
Sono altresì ben conosciuti gli aspetti qualificanti della sua personalità e del suo carattere: la parlantina sciolta che avvolge e disorienta l’interlocutore, l’autostima forse esagerata, l’ostinazione e il coraggio che ha sempre mostrato nei momenti decisivi, il piglio volitivo e decisionistico, l’argento vivo e la perenne agitazione, una sfrontatezza o faccia tosta compensata da un viso da bravo ragazzo solo un po’ impertinente, un filo evidente di narcisismo e un po’ della prosopopea che i fiorentini hanno da secoli, ma tutti, dai lombardi ai calabresi, abbiamo difetti collettivi ereditati.
Eppure resta la domanda su chi sia per davvero Matteo Renzi. Non perché ci siano segreti da disvelare, ma perché c’è forse una nuova tipologia d’italiano della quale prendere coscienza e con la quale fare i conti e che egli probabilmente meglio di tutti incarna. Un po’ quel che è capitato con Berlusconi (e anche in questo paragone non c’è alcun intendimento malizioso) quando quest’ultimo si palesò sulla scena pubblica. Venendo dagli “anni di piombo” e dalle grandi mobilitazioni nel segno dell’ideologia, era quello un tipo antropologico al quale non eravamo abituati: il fai da te spregiudicato, il Brambilla rampante, il Don Giovanni con la grana e un po’ ganassa. Pensavamo esistesse solo nella commedia all’italiana e invece erano alcuni milioni di italiani che s’erano stancati dei partiti e dei loro latrocini, dello Stato e dei suoi apparati soffocanti, che avevano lavorato sodo mentre gli altri scendevano in piazza a manifestare e a pestarsi, che la sera preferivano riposarsi guardando la televisione invece di partecipare a dibattitti o assemblee e che aspettavano solo qualcuno che li rappresentasse. Il berlusconismo, prima che un fenomeno politico, fu un cambio d’epoca, il segno di una – per certi versi salutare – mutazione socio-antropologica.
Oggi probabilmente il copione si ripete. Se Monti e Letta sono stati due autorevoli esponenti dell’oligarchia politico-burocratica italiana, messi in campo da quest’ultima a tutela di se stessa in una fase di torbidi e di instabilità, Renzi il rottamatore è il campione, da un lato, di quell’Italia di provincia che con i riti e gli intrecci di Palazzo non ha mai avuto molto a che fare, dall’altro di una generazione che si è semplicemente stancata di non contare nulla in un Paese di politici di lungo corso e di immarcescibili grands commis, insomma di vecchi che non mollano l’osso. Le simpatie trasversali di cui ha goduto, almeno sinora, nascono da questo: è un giovane che invece di lamentarsi combatte, che non le manda a dire in un Paese di ipocriti, che non ha grandi timori riverenziali, che punta a cambiare mentre in tanti puntano a conservare non si sa bene che cosa. È uno che come tutti quelli cresciuti come lui, col tubo catodico invece che con i libri sacri, non si vergogna di mescolare l’alto e il basso, il sacro e il profano. Basta guardare ai sottotitoli dei suoi libri: “Tra De Gasperi e gli U2”, oppure “Tra Dante e Twitter”. Sembra una bestemmia, ma è la modernità: l’umanesimo e le nuove tecnologie, il classico e l’effimero digitale, e chi non governa entrambe queste dimensioni è bene che si faccia da parte, altro che voler dare lezioni al prossimo.
C’è oggi una vasta quota di italiani mentalmente più liberi dei loro genitori e fratelli maggiori, portati a muoversi (non foss’altro che per necessità) fuori dagli schemi e dalle convenzioni, che preferiscono un futuro incerto a un passato poco glorioso, ambiziosi e vogliosi, impazienti e insofferenti, ma comunque radicati in credenze solide, individualisti ma desiderosi comunque di partecipare ad un disegno comune, disposti a demolire ma per poi ricostruire non per il gusto di sfasciare tutto. Italiani meno volgari e sguaiati di quelli che abbiamo visto all’opera in questi anni sulla scena pubblica, rimasti sin qui nelle retrovie a chiedersi cosa fare in vista del loro domani, mediamente arrabbiati e più spesso semplicemente delusi e scoraggiati, ai quali partiti, sindacati, associazioni di categoria e chiese d’ogni stampo nell’ultimo decennio non hanno avuto nulla da dire, li hanno anzi lasciati soli con i loro problemi e pensieri.
Ecco, Renzi probabilmente rappresenta quest’Italia che avanza o che considera venuto il suo turno dopo le tante cattive prove date da chi l’ha preceduta. Fallirà per eccesso di sicurezza e di baldanza? Riuscirà grazie al suo slancio contagioso? Si scoprirà che è vuoto e vacuo o che invece ha riserve profonde di valori ed energia? C’è in lui un tratto di schiettezza e semplicità, tipico dell’Italia popolare e dunque comune a molti suoi connazionali, che potrebbe aiutarlo a fare bene. Tanto il peggio, se escludiamo una catastrofe, lo abbiamo già visto. Può solo venire il meglio, con un po’ di fortuna.
* Articolo apparso sul quotidiano “Il Mattino” (Napoli) del 15 febbraio 2014.
Commento (1)
Michele Ricciardi
Analisi convincente. Ma c’è un ma: perché Renzi è stato subito incoronato da tutto l’establishment dei media italiani e anglosassoni, che sono normalmente schierati con quei grand commis conservatori già rappresentati da Letta e Monti?