di Alessandro Campi

untitledNeppure lontanamente, nel suo discorso tenuto ieri al Salone dei Corazzieri, Napolitano ha accennato alla sua volontaria e anticipata uscita di scena, come forse qualcuno immaginava. I retroscenisti ci dicono che le dimissioni sono state già decise e che verranno formalizzate con l’inizio del nuovo anno. Il che naturalmente giustifica la corsa al Quirinale che si è ufficialmente aperta ormai da giorni, peraltro con le solite modalità: nomi che sui giornali vanno e vengono (e non importa che in certi casi siano francamente improbabili), veti incrociati tra i partiti, manovre dietro le quinte, autocandidature mascherate, sdegnose dichiarazioni d’indisponibilità o una calcolata lontananza dalla scena che sono l’indizio più eloquente per individuare chi in cuor suo sta coltivando il sogno impossibile di andare al Colle, etc.

Sarebbe divertente se Napolitano, accogliendo un invito che Renzi gli ha rivolto privatamente in più occasioni, ci ripensasse, protraendo almeno sino al maggio-giugno del prossimo anno la sua permanenza al Quirinale. Sarebbe divertente, dal momento che smentirebbe fiumi di parole, ma forse avrebbe anche un senso politico, se è vero che l’unica ragione per cui ha accettato una rielezione contro prassi è stata – come ha ricordato ieri a chiare lettere concludendo il suo discorso – quella di assicurare all’Italia quel minimo di continuità politica e istituzionale senza il quale non solo non si possono fare le riforme, ma nemmeno si può garantire la tenuta sociale del Paese. A gennaio quest’esigenza sarà magicamente venuta meno, con le voci che corrono frenetiche di elezioni anticipate e di scissioni (denunciate ieri, non casualmente, come un irresponsabile spreco di inchiostro), con le riforme istituzionali in alto mare, con la legge elettorale che non si riesce a varare e con la crisi economica che ancora incalza drammaticamente?

Ma se tutti dicono che Napolitano lascerà a gennaio, anche perché ormai fisicamente troppo stanco, deve essere vero. E dunque appare legittimo chiedersi chi possa prenderne il posto e con quale metodo debba essere scelto.

Si parla, su quest’ultimo versante, di un Presidente per quanto possibile largamente condiviso. Laddove la condivisione, sul filo del buon senso politico, dovrebbe riguardare non solo il Pd e il Pdl (che ancora non ci hanno spiegato cosa ci sia scritto nel Patto del Nazareno in materia di Quirinale, dicendo sul tema cose opposte e inconciliabili), ma anche quel quarto d’Italia che vota o si riconosce in Grillo e soprattutto quel pezzo d’Italia, forse ancora più grande, che ormai si rifugia stabilmente nell’astensionismo. Costoro, paradossalmente, hanno più bisogno di altri di sentirsi rappresentanti, prima che l’abisso tra cittadini e Stato diventi incolmabile. Se Napolitano fa bene a denunciare – lo ha fatto anche ieri – l’antipolitica come una patologia devastante ed eversiva, anche se forse dovrebbe anche ammettere che la scaturigine dell’antipolitica è semplicemente la politica inetta e corrotta, il prossimo Capo dello Stato avrà il compito di recuperare alla vita pubblica i delusi dalla democrazia dei partiti. Ma c’è un politico con esperienza che possa oggi godere del rispetto di chi la politica ormai semplicemente aborre? O per rigenerare le istituzioni agli occhi dei cittadini bisogna affidarsi, come qualcuno suggerisce, nuovamente ad un tecnico (come fu Ciampi e come potrebbe essere Draghi) o comunque ad un outsider percepito come distante dal Palazzo?

L’altro auspicio riguarda il ruolo di garanzia che l’inquilino del Colle dovrebbe sempre rispettare, sebbene nel passato ciò non sia sempre accaduto. Laddove la garanzia, nel senso dell’equità e dell’imparzialità, vale verso gli italiani di ogni colore politico, ma nel segno della affidabilità, della certezza che gli impegni assunti dal Paese vengano rispettati, appunto della continuità istituzionale e della salvaguardia della stabilità del sistema politico, vale soprattutto nei confronti dei nostri interlocutori stranieri, a partire ovviamente dall’Unione europea. Se si adotta quest’ultimo criterio come prioritario, il numero dei candidati potenziali, rispetto ai tanti nomi che circolano, si assottiglia di molto. Quanti sono coloro che in Italia possono davvero vantare credenziali di questa natura su scala internazionale?

Ma l’elezione del prossimo Capo dello Stato è complicata questa volta da molti fattori. Ad esempio l’indisciplina al limite dell’anarchia che vige nell’attuale Parlamento. Da quando è venuta meno la lealtà di partito e il controllo di quest’ultimo sui propri eletti, nelle Camere, specie nei momenti topici, talvolta si rischia di navigare a vista, tra ricatti e imboscate, come nel caso recente delle votazioni sui giudici costituzionali. Prima di andare in aula, volendo evitare lo spettacolo penoso che portò all’affossamento di Prodi e all’impasse parlamentare, stavolta sarà necessario un lavoro di raccordo e mediazione la cui responsabilità principale spetta decisamente a Renzi. Anche se le opposizioni su una simile partita non possono certo tirarsi indietro o limitarsi a fare interdizione. Se Forza Italia non può accontentarsi di dire “no” al professore bolognese e a proporre al suo posto Gianni Letta, il movimento di Grillo – sperando che le lezioni del passato siano servite – dovrà assumere un atteggiamento più dialogante e propositivo. Il consenso nelle urne ai grillini sta scemando ad ogni consultazione, ma è ancora forte, al netto delle defezioni, la loro rappresentanza parlamentare: si decideranno a fare politica stavolta o avranno ancora la pretesa di spacciare per volontà popolare le deliberazioni dei loro quarantamila iscritti incollati perennemente al computer?

Quanto a Renzi, analisti maliziosi sostengono che la sua idea sarebbe mandare al Colle una personalità debole o incolore, che non gli faccia ombra e lo assecondi nel caso decidesse di andare al voto anticipato. Ma questo retropensiero, ammesso sia vero, rischia di risolversi in un’illusione. Quella quirinalizia è, come insegna la storia repubblicana, una magistratura particolare, che modella chi la occupa più di quanto non risulti modellata dall’occupante momentaneo, che insomma vive di vita propria nel segno di un’indipendenza quasi assoluta. Aver scelto per questa carica, in passato, personalità che si ritenevano estranee ai ruoli di comando politico all’interno dei rispettivi partiti non ha impedito loro di imprimere il proprio stile e la propria visione alla vita pubblica nazionale e di assumere un ruolo preminente o comunque decisivo in rapporto agli altri poteri costituzionali. Insomma, un Presidente che fosse malleabile o accomodante, se pure questa era stata la speranza di chi l’aveva eletto, sinora non l’abbiamo mai avuto. E per i cittadini questa è, tra le garanzie che un Capo dello Stato può dare, forse la più tranquillizzante.

* Editoriale apparso su “Il Messaggero” (Roma) del 17 dicembre 2014.

 

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