di Alessandro Campi
La Merkel ha vinto, secondo le previsioni, ma il male europeo ha contagiato la Germania, secondo i timori. La sua economia resta certamente la più forte e dinamica del continente, ma da ieri il suo sistema politico-istituzionale deve fare i conti con le paure, le lacerazioni e i sommovimenti tellurici che da anni attraversano la gran parte dei Paesi occidentali. Benvenuti, amici tedeschi, nel club mondiale delle democrazie febbricitanti.
I centristi e i socialdemocratici si sono confermati le due forze principali del Paese, ma il loro arretramento elettorale è stato consistente (al limite della débacle quello della Spd, particolarmente grave quello dei cristiano-sociali bavaresi che in passato avevano sempre coperto a destra i cristiano-popolari). Le due culture politiche che sono state il pilastro, organizzativo e ideologico, della democrazia tedesca per sessant’anni rappresentano ormai solo la metà del Paese. A suo modo è la fine di un’epoca, che però conferma un trend già osservato negli ultimi anni in molti altri Paesi europei (dalla Spagna alla Francia, dal Belgio all’Austria). In particolare continua il declino del socialismo europeo, da leggere probabilmente in combinazione con la crisi strutturale del modello dello Stato sociale redistributivo.
Con questo voto finisce anche la formula storica della “grande coalizione”. La collaborazione al governo tra i due grandi partiti di massa era diventata la causa di una crescente confusione delle lingue, che alla fine ha penalizzato entrambi. La comune corsa al centro, nel nome della politica post-ideologica o pragmatica, aveva ormai reso i programmi e gli slogan dei due partiti tra di loro indistinguibili o eccessivamente simili. Se la sinistra parla il linguaggio dei moderati perché votarla? Se i conservatori adottano i valori del progressismo perché sostenerli? Non stupisce il bisogno di un’alternativa reale – verso destra e verso sinistra – di molti elettori sfiduciati o delusi dalle loro vecchie appartenenze.
Il risultato di quest’insofferenza (che ha comportato una crescita dei votanti rispetto alle passate elezioni politiche) è stato il successo alle urne dei liberali, dei verdi, della sinistra radicale e soprattutto dei populisti: tutti sono entrati nel Bundestag, superando la fatidica soglia di sbarramento del 5%. E anche questa frammentazione (e crescente radicalizzazione) del quadro parlamentare rappresenta per la Germania una grande novità.
Ma il vero cambiamento è stato il 13% abbondante ottenuto dai nazionalisti. Dopo la sconfitta di Marine Le Pen in Francia ci avevano spiegato, con tanto di grafici e tabelle, che il populismo era in ritirata, sconfitto dall’europeismo macroniano. Da ieri gli stessi analisti ci stanno spiegando quanto esso rappresenti ancora una grave minaccia per le democrazie europee. Forse nelle nostre analisi dovremmo essere meno rapsodici e superficiali. Dovrebbe ormai essere chiaro che il voto ai populisti, nelle diverse espressioni che essi hanno assunto in Europa, non è solo un’esplosione momentanea di rabbia o una forma occasionale di protesta. E’ un voto divenuto stabile e strutturale, frutto dei profondi cambiamenti sociali, economici e culturali prodotti dalla globalizzazione. Se quest’ultima è irreversibile, come si sostiene, lo sono anche gli effetti politici che essa sta determinando ovunque nel mondo.
Nel caso della Germania ci sono certo da considerare alcune particolarità storiche. Il successo dell’estrema destra soprattutto nei territori ex-comunisti indica, come molti sostengono, la scarsa educazione democratica dei tedeschi cresciuti sotto la dittatura o che ancora risentono di quella mentalità. Ma ridurre questo successo ad un rigurgito ideologico neo-nazista o ai pregiudizi di un elettorato in prevalenza anziano e ignorante è un errore. Lo ha riconosciuto la stessa Merkel quando ieri, commentando il voto e facendo una chiara allusione alla questione dell’immigrazione e delle crescenti diseguaglianze sociali, ha detto che intende dare una risposta al disagio reale degli elettori che hanno votato per la destra radicale con l’idea di riportarli all’interno del recinto democristiano.
Il problema, dopo questo terremoto, è quale governo potrà nascere. L’annuncio clamoroso di Schulz che non ci sarà più una Grosse Koalition è dipeso da almeno due fattori: uno strategico e uno tattico. Il primo ha a che fare col bisogno della Spd di ritrovare la propria identità ideologica e di rinnovarsi sul piano organizzativo lasciandosi le mani libere per i prossimi anni. Il secondo si spiega con la necessità di sbarrare la strada ai nazionalisti sottraendo loro i vantaggi – sul piano istituzionale e dell’immagine – che ricaverebbero dall’essere la principale forza d’opposizione in Parlamento.
Resta dunque un’unica soluzione: un governo di coalizione tra Csu/Cdu, verdi e liberali. Serviranno trattative lunghe e laboriose. Servirà soprattutto la proverbiale capacità della Merkel ad ammorbidire, smussare e conciliare. Verdi e liberali hanno idee e programmi molti diversi, che davvero non si capisce come si possano conciliare a livello di governo. La pensano all’opposto, ad esempio, sulle questioni europee: fautori di politiche economiche espansive i primi, sostenitori del rigore nei bilanci pubblici i secondi. Lo spettro che si adombra, col rischio addirittura di un nuovo voto politico a breve, è quello dell’ingovernabilità: che se per noi è una parola d’uso comune, per i tedeschi è una specie di bestemmia.
Con un quadro interno tanto confuso naturalmente si profila un serio rischio: che la Germania nei prossimi mesi debba mettere in secondo piano le questioni europee e rinunciare ad esercitare la sua storica leadership. Dopo questo voto ci si aspettava un rilancio del processo di integrazione sulla base di una ritrovata intesa tra la Merkel e Macron. Ma le cose, come spesso accade in politica, sembrano essere andate in modo differente. Sembrava un voto scontato, è stato invece un piccolo tornante della storia.
* Editoriale apparso sui quotidiani ‘Il Messaggero’ e ‘Il Mattino’ del 25 settembre 2017.
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