di Danilo Breschi
Con un’ottima curatela, la casa editrice Bibliosofica celebra i duecentocinquant’anni dalla nascita di Madame de Staël ripubblicandone le riflessioni su Rousseau e sul suicidio (Madame de Staël, Lettere sugli scritti e il carattere di Jean-Jacques Rousseau; Riflessioni sul suicidio, a cura e con introduzione di Livio Ghersi, trad. dal francese di Andrea Inzerillo, Bibliosofica, Roma 2016). Due testi che consentono al lettore di oggi, digiuno dell’opera della grande scrittrice franco-svizzera (nacque a Parigi il 22 aprile del 1766, figlia del ginevrino Jacques Necker), di apprezzarne tanto l’attualità del pensiero politico quanto l’eleganza e la profondità dello stile e del contenuto letterari. Il primo scritto risale al 1788, quando Rousseau non era ancora assurto al rango di gloria nazionale, conferitogli dalla Convenzione Nazionale solo nel 1794. E il testo della de Staël ebbe proprio questo merito: a soli dieci anni dalla scomparsa dello scrittore, figura isolata, avversata ed emarginata dalla cultura ufficiale, se ne segnalava invece tutta l’importanza e originalità. Si promuoveva il talento letterario di Rousseau, non il pensiero politico.
Fedele alla lezione di Montesquieu, Madame de Staël non condivideva la predilezione rousseauiana per la democrazia diretta, perorando piuttosto la rappresentanza legislativa e la separazione dei poteri sul modello inglese. Il secondo scritto trasse spunto da un fatto di cronaca che nell’ottobre del 1811 colpì molto l’opinione pubblica, in particolare gli ambienti intellettuali europei: il suicidio del celebre poeta tedesco Heinrich von Kleist e della sua amante, Henriette Vogel. De Staël s’interrogò sui motivi e sui possibili modi per distogliere da una tale azione: su tutti, il rimedio è la dedizione agli altri, “la vera dignità morale dell’uomo”. Ad animare la penna, e la vita, della baronessa fu la convinzione che la “natura immortale” del pensiero conduce chi ne fa esercizio quotidiano “a elevarsi di continuo” e “una maggiore intensità di vita è sempre un aumento di felicità”. Così scriveva nel 1788, nel saggio dedicato a Rousseau, e nel 1813, nelle Reflexions sur le suicide, aggiungeva: “Amare e pensare ci dà sollievo e ci esalta solo nella misura in cui ci sottrae alle impressioni egoiste”. La religiosità di Madame de Staël, ispirata da un cristianesimo protestante non ortodosso ma irrorato da una più ampia sensibilità umanistica, la portò a condannare il genio e il talento svincolati dall’altruismo e motivati dalla sola ambizione personale, ovvero dall’egoismo. “Ciò che distingue la coscienza dall’istinto è il senso e la conoscenza del dovere, e il dovere consiste sempre nel sacrificio di sé agli altri. Tutto il problema della vita morale – proseguiva nella sua riflessione sulle cause del suicidio – è racchiuso in questo, tutta la dignità dell’essere umano è proporzionale alla sua forza, non soltanto davanti alla morte, ma nel non lasciarsi dominare dagli interessi dell’esistenza”.
In queste parole si comprende bene l’interesse coltivato dalla baronessa franco-svizzera nei confronti di Rousseau, considerato, non a torto, come l’unico intellettuale francese di metà Settecento che contemplasse e valorizzasse il sentimento religioso dell’uomo e ne valutasse l’importanza nella costruzione di una cittadinanza repubblicana. Secondo quanto scrive la baronessa franco-svizzera, una possibile saldatura tra istituzioni liberal-costituzionali e costumi sociali repubblicani può ritrovarsi nella promozione pubblica di idee e sentimenti volti all’altruismo e alla conquista della dignità tramite sacrificio di sé e delle proprie passioni egoistiche. Il punto di incontro fra liberalismo e repubblicanesimo starebbe dunque in un ethos cristiano secolarizzato, nel senso di diffuso e popolarizzato, per così dire, non di diluito fino al punto di estinguersi nel più assoluto indifferentismo in materia di religione. Come se la perdita di una religiosità (comunque cristiana) diffusa conducesse all’anomia, alla perdita di cogenza delle norme di convivenza sociale ispirate alla pace e al progresso. Ne scaturisce l’affermazione che i diritti non possono che essere coadiuvati dai doveri, in un nesso circolare indissolubile. Senza i doveri, i diritti restano sulla carta. Senza i diritti, i doveri si riducono a catene. Non casuale, in tal senso, il riferimento a Tommaso Moro, il quale ebbe a sacrificare “tutti i godimenti a quel sentimento del dovere, la più grande meraviglia della natura morale, quella che feconda il cuore, come nell’ordine fisico il sole rischiara il mondo”.
Dalle pagine sul suicidio, più che da quelle direttamente dedicate al pensatore ginevrino, si confermano alcuni capisaldi del pensiero politico di Madame de Staël e di quanto il suo proto-liberalismo abbia aperto la strada alla riflessione di Tocqueville, restando non ancora del tutto chiaro quanto le idee di Benjamin Constant debbano alla lunga relazione, anche amorosa, avuta con la baronessa. Certo è che anche tra queste pagine si rintracciano numerose assonanze, se non perfette identità di veduta, tra i due pionieri del liberalismo francese dell’Ottocento.
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