di Dino Cofrancesco
Studioso di vaste e approfondite letture, Corrado Ocone può considerarsi uno dei maggiori interpreti del pensiero di Benedetto Croce in circolazione. Il filosofo napoletano rimane il suo «termine fisso d’eterno consiglio» e, anche quando si occupa di filosofi italiani o stranieri, lo storicismo assoluto resta sempre la sua pietra di paragone.
Ne è una riprova la recente raccolta di saggi Il liberalismo nel Novecento. Da Croce a Berlin (Rubbettino), un confronto critico di sei grandi figure del pensiero politico occidentale – Michael Oakeshott, Karl Popper, Friedrich A. von Hayek, Isaiah Berlin, Bruno Leoni e Robin G. Collingwood – con il caposcuola del neoidealismo italiano.
A differenza di molti commentatori, memori di quanto scriveva Croce a Enzo Santarelli nel 1946: «Salvo qualche particolare secondario, io sono d’accordo con Lei, cioè che la mia trattazione della libertà sia stata ispirata e configurata dalla resistenza contro l’oppressione fascistica», Ocone, non crede a una cesura tra il Croce prefascista e il Croce mentore antifascista. «L’affermazione della libertà umana contro le regole, della spontaneità individuale contro ogni forma di determinismo o meccanicismo o schematismo e contro ogni forma più o meno costruttivistica o ingegneristica del vivere sociale; l’affermazione, ancora, dell’autonomia (darsi o conquistare da sé la propria sempre provvisoria regola di vita) contro ogni forma (esplicita o mascherata) di eteronomia; in una parola, l’affermazione della vita che è (la) libertà contro le forme» sono tratti costanti di tutta la produzione intellettuale crociana, prima e dopo il 1925. In questo senso, Ocone contesta l’idea – contenuta nel denso saggio di Mario Stoppino su Croce e il liberalismo, uscito nel 1983 sul Politico – che non vi sia nesso tra la libertà-principio intesa come «forza creatrice o soggetto di tutta la Storia», la libertà-ideale identificata con la coscienza morale, la libertà-teoria vista come «dialettica immanente della Storia che ha per legge il contratto e la guerra, abbraccia e supera ugualmente tutti gli stati, tutte le dottrine e tutte le istituzioni» e, infine, la libertà come metodo che «avvalora e difende ripetutamente il libero dibattito e il libero confronto tra le diverse opinioni, credenze e prassi sociali […] la varietà e la molteplicità delle tendenze sociali e dei partiti politici e la speciale funzione dell’opposizione». Per Ocone i congegni istituzionali del liberalismo d’antan che contrappongono allo Stato, da limitare nella sua invadenza, l’individuo, da garantire nelle sue libertà, sono in fondo astrazioni, pur se storicamente hanno svolto una funzione utile. «Opporre l’Individuo-sostanza allo Stato-sostanza significa restare all’interno di un rapporto dicotomico che Croce vuole semplicemente oltrepassare». Ma allora «qual è il luogo o la dimensione in cui si muove per Croce il liberalismo? È presto detto: la società, quella dimensione intermedia in cui gli uomini vengono in contratto fra loro e commerciano e scambiano idee, merci, magari, perché no?, affetti e sentimenti. Nello scambio propriamente detto non c’è un prima e un poi, il rapporto tra chi commercia è di mutua interdipendenza, di dialettico dare e avere alla ricerca di un equilibrio». È lecito nutrire più di un dubbio su questa idea dello «scambio sociale» destinata a risolvere i problemi relativi ai rapporti tra le quattro libertà individuate da Stoppino e a riportare sulla terra la religione della libertà, espressione di uno Spirito senza più esse maiuscola.
Mi sembrano, invece, molto pertinenti i rilievi critici sui pensatori liberali messi a confronto con Croce. Mi limito a ricordare quello sul fondo di cartesianesimo che permane nel pensiero di Hayek: «l’idea o concezione di un ente-sostanza ultimo, in sé concluso, inconcusso e indivisibile (in-dividuo) appunto» al quale si contrappone che «ognuno di noi è un centro di forze in equilibrio precario e provvisorio (e questo già di per sé è garanzia di antiperfezionismo, un insieme contingente di relazioni con gli altri e con il mondo». Ma ancor di più trovo convincente l’estromissione dal liberalismo di teorici come John Rawls, Ronald Dworkin, Jurgen Habermas – per non parlare dei falsi liberali come i fautori della proliferazione dei diritti alla Stefano Rodotà o i paladini dei beni comuni alla Salvatore Settis. Il costruttivismo della teoria rawlsiana della giustizia, per Ocone, rappresenta «uno dei più coerenti e radicali tentativi di riproporre e rialitare la metafisica classica» impegnando gli uomini alla ricerca di una impossibile giustizia oggettiva che costringa all’accordo razionale.
Riconosciuti gli indubbi pregi del libro di Ocone, va detto, però, che l’immanentizzazione e l’immersione nel sociale della filosofia crociana – quasi a voler riconciliare lo storicismo assoluto con la political culture dell’Istituto Bruno Leoni – lo porta a forzature come «la definizione o decostruzione dell’idea di Stato operata da Croce è stata tanto radicale da far impallidire i più tenaci critici odierni dello statalismo». difficile condividere un simile giudizio per chi ricordi lo scritto del 1933, Amore e avversione allo Stato: «Fermato il punto che lo Stato è indispensabile alla stessa vita morale come base sulla quale questa s’innalza e come materia che le si offre per l’opera a lei propria, che cos’altro può essere l’amore, l’amore vero e sincero allo Stato e alla politica se non l’amore al campo sul quale l’uomo morale, e con esso l’uomo del pensiero e dell’arte, lavorano, e sul quale solamente è data la gioia del lavoro? Si ama lo Stato come si ama il luogo dove viviamo, la natura che ci circonda, la nostra famiglia, i nostri amici e compagni, che sono tutti condizioni e oggetti dell’operosità a noi congeniale, e insieme del nostro dovere. Amore che non va disgiunto da affanni e dolori, ma che appunto per questo è amore, concordia discorde e discordia concorde». Antistatalismo?
* Articolo apparso su “Il Giornale” (Milano) del 3 marzo 2016.
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