di Alessandro Campi
Con il titolo “Democrazie monarchiche” quest’articolo è apparso sul “Riformista” del 17 ottobre 2010. Già tre anni fa – ma sullo stesso tema mi era capitato di scrivere in precedenza – mi sembrava chiara l’evoluzione in senso dinastico-patrimoniale del partito di Berlusconi, congruente peraltro con una linea di tendenza che si riscontra da anni in diverse democrazie contemporanee (che io chiamo “democrazie dinastiche” o appunto, per sottolineare l’aspetto paradossale del fenomeno, monarchiche”). Mentre si parla sui giornale della possibilità che Marina Berlusconi succeda al padre alla guida del centrodestra, mi è parso utile riproporre questo contributo, che cerca di spingersi oltre la cronaca sul piano dell’analisi, segnalando come una tale eventualità non sarebbe da considerare come l’ennesima eccentricità italiana (e berlusconiana) ma come un processo (dal mio punto di vista involutivo) che rischia di coinvolgere il modello democratico di molti Paesi del mondo.
L’idea che dopo Silvio possa toccare a Marina – di là dalle smentite ufficiali di quest’ultima arrivate ieri, che nella logica perversa e paradossale della comunicazione odierna equivalgono in realtà a una conferma – è un mio vecchio pallino, sul quale mi è capitato di scrivere in più di un’occasione, sollevando più divertimento e curiosità che un’attenzione politicamente fondata. Quello sul dopo-Berlusconi è per molti versi un gioco di società che va avanti da anni e che facilmente sconfina nel gossip. E dunque un nome sembrerebbe valere l’altro.
In realtà, l’idea di una successione alla guida del centrodestra che potrebbe avvenire per linea di sangue è, dal mio punto di vista, non solo una suggestione provocatoria e irriverente, ma un’intuizione corroborata da diversi elementi di cronaca, sparsi e frammentari, all’apparenza insignificanti e banali, ma proprio per ciò assai espressivi, e da un ragionamento storico d’ordine generale.
Parto dai primi, ricordando la lezione di uno storico oggi dimenticato, Niccolò Zapponi, che una volta ha spiegato l’importanza fondamentale che, per l’interpretazione della politica in un’epoca dominata dalla comunicazione di massa, nella quale le forme dell’immaginario collettivo e le percezioni sociali contano assai più della realtà presentata dagli annalisti come ufficiale e “seria”, rivestono i dettagli, le notizie secondarie, i materiali di scarto e le fonti all’apparenza spurie ed eterodosse.
Una lezione che nel giornalismo politico contemporaneo, unicamente interessato alle cronache dal Palazzo e ai retroscena pilotati dai diretti interessati, guida le analisi spesso folgoranti e controcorrente di Filippo Ceccarelli, uno dei pochi capito che per interpretare la postmodernità – della quale il berlusconismo è un’espressione da manuale – bisogna affidarsi soprattutto ai segni e alle coincidenze simboliche, ai paradossi logici e agli accidenti.
Bene se si prende per buono quest’approccio, che considera essenziale e chiarificatore ciò che spesso viene liquidato come irrilevante e accessorio, è chiaro che la costruzione pubblica di Marina Berlusconi alla stregua di un leader politico, potenzialmente destinato a prendere il posto del padre, è cominciata da un pezzo e con modalità per così dire scientifiche. L’avvio è stato dato, non casualmente, dai giornali popolari e di intrattenimento della famiglia, che hanno preso a descriverla – nel quadro di una “storia italiana” che si rinnova e si consolida – con toni encomiastici e laudatori, esaltandone l’intelligenza, la bellezza e il carattere di ferro: la degna figlia di cotanto genitore, fatalmente destinata a prenderne il posto. Si è poi proseguito sulla stampa quotidiana amica o partecipata dalla famiglia dal punto di vista azionario, con interviste e interventi mirati e più direttamente politici, tesi anch’essi a mostrarne, senza alcun filtro critico, le capacità di guida, la serietà e la determinazione. Il tutto secondo un copione già sperimentato a suo tempo, con successo, proprio da Silvio, teso appunto a elaborare dal basso, a beneficio del vasto pubblico, formato da lettori/elettori, un’immagine di sé vincente e avvincente, teso a prefigurare un destino unico in forma di racconto esemplare.
È chiaro altresì che questo meccanismo politico-simbolico è oggi reso più efficace dal fatto di inserirsi in un contesto culturale nel quale per anni si sono accumulati segnali, atteggiamenti, pulsioni, linguaggi stereotipi narrativi che rendono una simile soluzione dinastica la più congruente con la natura principesca e cortigiana, regale e munifica, che caratterizza ormai da tempo, nella percezione diffusa degli italiani, la leadership berlusconiana: una forma di potere personale e sovrano che ha nel popolo la sua unica fonte di legittimazione, che non conosce limiti all’esercizio della propria volontà e del quale chi lo detiene può dunque disporre liberamente. A chi, scomodando Max Weber, ricorda che il carisma personale non si trasmette da una persona all’altra, viene facile rispondere – è già accaduto nella storia – che si possono invece ereditare il potere materiale, il prestigio a esso connesso e la rete di relazioni sociali che lo sorregge. Senza contare che per chi proviene da una cultura in senso lato aziendalistica, che al vincolo di obbligazione politica ha sempre anteposto la fedeltà personale, che ha sempre subordinato la sfera delle relazioni pubblico-istituzionali a quella dei rapporti privati, che ha sempre considerato lo Stato un’azienda di grandi dimensioni, nulla è più naturale che immaginare una successione tutta giocata in famiglia e il potere un sistema di rapporti basato su vincoli fiduciari e amicali.
Esiste d’altronde un processo storico generale che sembra investire le democrazie contemporanee e che le spinge sempre più verso modalità di gestione (e trasmissione) del potere di stampo oligarchico-famigliare: grandi dinastie (i Kennedy, i Bush, i Clinton) hanno segnato la storia politica recente degli Stati Uniti; nell’Argentina contemporanea le mogli hanno sovente affiancato o sostituito i mariti al potere a furor di popolo (da Eva Peron a Cristina Kirchner); nella Polonia post-comunista la scena politica è stata a lungo occupata da due gemelli (Lech e Jaroslaw Kaczynski); un affare di famiglia è stato il socialismo francese degli ultimi anni (con François Holland sposato a Ségolène Royal) e potrebbe diventarlo anche il laburismo britannico (con la competizione tra i fratelli Ed e David Miliband); sempre in Francia Jean-Marie Le Pen ha lasciato il testimone alla figlia Marine; la Grecia democratica ha visto alternarsi, negli ultimi decenni, sostanzialmente due famiglie, i Karamanlis e i Papandreou; certamente dinastica è da sempre la grande democrazia indiana (dove domina la sempre la famiglia Gandhi), senza contare i clan e le famiglie che da decenni si alternano alla guida di molte democrazie periferiche, soprattutto asiatiche. Se questo è il trend involutivo dei sistemi elettivo-rappresentativi, Berlusconi non fa che assecondarlo alla sua maniera.
Stando così le cose, non sorprende che la discesa in campo di Marina sia oggi considerata una possibilità reale non solo dai critici del berlusconismo, abituati a pensar male, da anche da molti sostenitori del Cavaliere. L’ha ventilata per primo qualche settimana fa il quotidiano Libero. L’ha avallata Marcello Veneziani, sostenendo che il populismo berlusconiano rappresenta una forma di “monarchia elettiva popolare”, il modello politico peraltro più adatto al sentimento profondo degli italiani, anarchici con un profondo senso dell’autorità. Nei giorni scorsi l’idea è stata ripresa dal direttore del Giornale, Alessandro Sallusti, che l’ha presentata come l’unica soluzione possibile all’attuale crisi del berlusconismo. Il ministro Stefania Prestigiacomo l’ha salutata a sua volta come una novità persino salutare.
Insomma, quello che era solo un gossip o un divertimento d’autore, la possibilità cioè di un passaggio di consegne che potrebbe avvenire cin antiche modalità regali, da sottoporre a plebiscito popolare, potrebbe concretizzarsi davvero. Ma più che l’ultimo colpo di teatro del Cavaliere sarebbe a conti fatti la naturale conclusione della sua eccentrica avventura politica e della sua singolare concezione della democrazia. I segnali di un simile esito ci sono tutti già da tempo. Basta coglierli e metterli in fila.
* Articolo già apparso su “Il Riformista” del 17 novembre 2010 e successivamente pubblicato nel volume Cronache da Narni. L’ultima battaglia del Cavaliere, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2011, pp. 255-258.
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