di Vincenzo Montante

Teoria internazionale, che appare per la prima volta in lingua italiana, rappresenta, probabilmente, l’opera più profonda e significativa dell’inglese Martin Wight (1913 – 1972). Storico e politologo, accademico e grande organizzatore di cultura, teorico tra i più importanti nel XX secolo delle relazioni internazionali, Martin Wight fu un autore assai poco prolifico.

Come quest’opera, i maggiori contributi di Wight sono stati pubblicati postumi da colleghi ed allievi.

Teoria Internazionale è il frutto di una serie di lezioni che Wight tenne alla London School of Economics and Political Science durante gli anni cinquanta. In Teoria internazionale Wight compie una tripartizione delle tradizioni di pensiero sulla politica internazionale che hanno dominato in occidente. L’intuizione, come afferma Wight, viene da un passo di Montesquieu il quale sosteneva che tutta la storia delle dottrine politiche costituisce una sorta di grande ritorno, in cui è possibile, studiando i classici del pensiero, derivarne dei sistemi quindi effettuarne delle comparazioni.

È impossibile, come scrive Hedley Bull (allievo di Wight) nell’introduzione all’opera, sintetizzare tutto il lavoro di Wight sulle tre tradizioni di pensiero senza correre il rischio di banalizzarlo. Una recensione, a maggior ragione, enfatizzerà ancor di più questo rischio.

Per Wight tutte le varie speculazioni sulla politica internazionale sono riconducibili a tre grandi tradizioni di pensiero: machiavelliana (o realista), groziana (o razionalista), kantiana (o rivoluzionista).

Per i machiavelliani (realisti) le relazioni tra gli stati – unici attori della politica internazionale – sono relazioni di potenza. Mancando un’autorità superiore in grado di imporre la giustizia tra gli stati essi vivono in una perenne anarchia internazionale ove vigono la lotta e la sopraffazione.

Per i groziani (razionalisti) gli stati pur vivendo in un ambiente privo di un’autorità centrale in grado di imporre un ordine, le relazioni tra gli stati non sono solo di potenza, ma anche culturali, ideologiche. Quest’ultime fanno si che si creino delle consuetudini che regolano la vita (pacifica) degli stati. Essendo presente tra gli stati una sorta di obbligazione morale e psicologica (e forse anche legale) si può, per i razionalisti, parlare di società internazionale.

Per i kantinani (rivoluzionisti) la pace perpetua tra gli stati è realizzabile qualora si instaurino determinate visioni ideologiche e politiche. I rivoluzioni considerano le relazioni internazionali come una civitas maxima, al pari di uno stato (ovviamente pacifico) in cui tutti gli uomini condividono la stessa visione del mondo e dove, in questa grande cosmopoli, la violenza viene sostituita dalla fratellanza.

Dall’opera di Wight si possono ricavare tre lezioni.

La prima è scientifica. L’intelligibilità delle relazioni internazionale può avvenire soltanto attraverso la continua dialettica fra tutte e tre le tradizioni di pensiero.

La seconda è metodologica. Avverso allo studio astorico e afilosofico nelle scienze sociali, per Wight la ricerca sociale è, anzitutto, ricerca storica e filosofica, delle somiglianze e dissonanze nella politica internazionale.

La terza lezione è etica. Contrario, per convinzioni religiose, a credere in un progresso pacifico nelle relazioni internazionali quindi a studiarle esorcizzando il male (la lotta, la violenza), Wight ci aiuta a non cedere allo Zeitgeist, a non considerare l’oggi come l’era più eccezionale che ci sia mai stata o come la più misera della storia: “È una liberazione dello spirito acquisire prospettiva, riconoscere che ogni generazione si confronta con problemi della più profonda urgenza soggettiva, ma che una classificazione oggettiva è probabilmente impossibile; apprendere che i medesimi precetti morali e le stesse idee sono state precedentemente esplorate.” (p. 82).

 

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