di Alessandro Campi
Noi italiani abbiamo insegnato al mondo la necessità, applicata soprattutto all’arte politica, di tenere separata l’apparenza dalla realtà. E l’utilità pratica che può derivare dal dire una cosa intendendone in effetti una diversa o opposta, dall’annunciare un’azione per poi farne un’altra. Senza contare il vantaggio che deriva, quando si vogliono confondere le idee agli avversari, dall’adottare comportamenti che a prima vista possono risultare del tutto insensati e immotivati, addirittura controproducenti, ma che hanno invece una loro razionalità (che poi i calcoli siano esatti è un altro conto).
Bene, si dice che Renzi stia facendo il matto, vittima com’è del suo congenito iperattivismo e di una visione della politica giocata tutta sulla velocità, la continua fuga in avanti e l’azzardo, come tale di corto respiro e incapace di sedimentare alcunché. È la sua natura impulsiva che lo rende irrequieto e imprevedibile – per sé e per gli altri. Come spiegarsi altrimenti l’agitazione di questi giorni, al limite della frenesia? Con la minaccia continua di far cadere il governo che proprio lui ha fatto nascere; le critiche feroci al partito di cui è stato segretario e che sembra diventato il suo nemico principale; gli ammiccamenti a Salvini da cui tutto dovrebbe invece dividerlo; infine la sua presenza ossessiva sui media quasi a creare un clima d’attesa per il gran colpo che starebbe per preparare (e che ieri sera, a “Porta a Porta”, ha cominciato pubblicamente a sferrare).
In realtà, come diceva Polonio del principe Amleto, nella follia c’è sempre del metodo. Il che significa che quella di Renzi, trattandosi di un politico navigato e scaltro, per quanto non più baciato dalla fortuna, è una follia apparente, calcolata. Il fatto che scalpiti così tanto, in un modo che può sembrare persino scomposto e privo di logica, non esclude dunque che abbia in testa dei concreti (e dal suo punto di vista plausibili) obiettivi politici, che forse si può provare a descrivere per grandi linee.
La banalità da cui partire è che Renzi, pochi mesi fa, s’è fatto un partito tutto suo. Una banalità che è ormai un punto fermo politico-caratteriale: egli non starà mai in una formazione di cui non sia, al tempo stesso, il capo, l’ideologo e l’uomo-immagine. Nulla di strano o censurabile, peraltro, visto che il leaderismo, la personalizzazione del potere e il partito personale sono tra le tendenze dominanti della politica contemporanea, anche nelle grandi democrazie. Il problema è che a farsi un partito sono bravi tutti (basta andare dal notaio, depositare un simbolo e fare un comunicato stampa): ma organizzarlo, farlo crescere, farlo durare, farlo contare politicamente è un’altra storia (la Seconda Repubblica italiana è un cimitero di partiti morti giovani o in fasce).
Italia Viva è una creaturina nata in Parlamento grazie a una classica scissione; nei consensi virtuali naviga sotto il 5%; non ha ancora mai affrontato la prova diretta e sempre incerta delle urne; ha un marchio (scialbino) che pochi conoscono, anche se tutti conoscono Renzi (da qui la sua necessità di non mollare mai la scena mediatica pena l’inizio dell’oblio); ha una significativa presenza parlamentare (quanto basta per far ballare questo governo o sostenerne un altro) ma non ha ancora costruito nella società quella vasta rete di alleanze senza le quali si è condannati alla marginalità. È dunque un partito al quale occorre tempo per rafforzarsi e diventare, oltre che credibile, riconoscibile agli occhi degli elettori. Chi accusa Renzi di essere un frettoloso non considera che in questo momento ciò che più sta cercando di guadagnare è proprio il tempo. Ed è in questa necessità vitale la risposta (negativa) a chi si chiede se stia pensando a interrompere prematuramente la legislatura. Non ne avrebbe in realtà nessuna convenienza.
E allora cosa vuole? Partecipare – dicono i maligni – al gran bottino delle nomine pubbliche. Ma è un’insinuazione insieme ridicola e ipocrita, specie se mossa da coloro che quel bottino vogliono tenerlo tutto per sé. La vera posta in gioco è un’altra: la fine di questo governo, non della legislatura. Per dirla più bruscamente, la testa di Giuseppe Conte. I due notoriamente non si amano, ma qui con c’entra l’antipatia personale, per quanto il fattore umano in politica non vada mai trascurato. C’è una partita politica che li rende concorrenti oggettivi. Da quando l’attuale Presidente del Consiglio ha reciso il suo legame d’appartenenza con il M5S, iniziando un intenso e strumentale gioco di sponda con il Pd, s’è capito che il suo futuro politico passa per la creazione di un ennesimo partitino personale (in questo caso blandamente riformista e di sinistra, ammiccante ad un certo mondo cattolico-progressista da cui egli proviene, sostenuto da pezzi di quell’alta burocrazia di Stato con la quale da mesi egli sta intrecciando rapporti e relazioni, sulla carta capace di attrarre anche grillini delusi e berlusconiani in libera uscita) il cui destino dovrebbe essere di rappresentare l’ala destra del “campo largo” che Zingaretti vorrebbe costruire intorno al suo nuovo PD (laddove l’ala sinistra sarebbe quella già esistente di Leu e quella ecologista-movimentista che potrebbe formarsi sull’onda delle sardine).
Ma un simile soggetto politico, se mai dovesse nascere, andrebbe fatalmente a sovrapporsi con quello al quale Renzi sta lavorando: avendo quasi gli stessi elettori e sostenitori potenziali. Da qui il tentativo di togliere a Conte l’unica fonte di legittimazione politica (e di visibilità mediatica) di cui al momento quest’ultimo gode: il suo incarico di Presidente del Consiglio, perdendo il quale si può ragionevolmente ipotizzare un suo rapido rientro nei ranghi dell’Accademia. Si tratta insomma di eliminare dalla scena un concorrente potenzialmente fastidioso. D’altro canto, in queste settimane Conte ha agito egualmente e per le stesse (anche se politicamente speculari) ragioni: ha cercato cioè di sostituire i renziani che ancora lo sostengono con la solita pattuglia di parlamentari senza patria (per ironia chiamati “responsabili”). Un modo per indebolirlo pesantemente, se non per provare ad eliminarlo dalla scena politica, facendo un doppio favore: a se stesso e al Pd zingarettiano. È strano che Renzi si sia difeso attaccando con virulenza?
Quello che Renzi ha sostenuto ieri nel salotto televisivo di Bruno Vespa conferma questo scenario. Senza sfiduciarlo direttamente ha però talmente alzato la posta sul piano del programma di governo, non solo con l’idea che si debba mettere mano ad una (davvero improbabile in questo frangente) riforma costituzionale di stampo presidenzialista, ma anche con la richiesta di cancellare il ddl sulla prescrizione e di rivedere i provvedimenti sul reddito di cittadinanza e Quota 100, da rendere inevitabile per Conte una verifica della maggioranza parlamentare che lo sostiene.
Se ci sarà crisi potrebbe nascerne un governo politico (inevitabilmente a guida Pd) oppure un esecutivo istituzionale o di legislatura. In entrambi i casi Italia Viva otterrebbe un risultato importante: confermare il proprio ruolo condizionate, ridurre il peso del M5S (accentuandone i dissidi interni). Di una cosa ieri Renzi non ha parlato, semplicemente perché non le vuole: di elezioni anticipate.
Se questi sono i traguardi tattici di Renzi, resta da chiedersi quale sia il suo obiettivo strategico o di lungo periodo. La cosa che attualmente colpisce di Italia Viva è che la presenza mediatica del suo leader è inversamente proporzionale ai consensi elettorali che le assegnano i sondaggi. Una stranezza che in realtà si spiega facilmente. Nessuno vota un partito che non si capisce dove e come intenda posizionarsi. Va bene l’afflato modernizzatore che Renzi rivendica a ogni pie’ sospinto. Ma da giocare in quale campo, e in alleanza con chi? Si è spesso detto che il suo obiettivo reale sia far rinascere la Fenice centrista. Circola infatti l’illusoria convinzione che il centro moderato sia lo spazio che tutti debbono conquistare per vincere: cosa forse valida un tempo, meno oggi che gli elettorati sono così polarizzati (al limite dell’estremismo) e meno vera ancora in una democrazia divenuta strutturalmente instabile e febbricitante come quella italiana. Ma i suoi alleati in quest’avventura neo-centrista, almeno sinora, non sono forze sociali organizzate o grandi soggetti collettivi, ma parlamentari singoli, spezzoni di partito allo sbando e opinionisti simpatizzanti, coi quali francamente non si fa molta strada.
Meno peregrina potrebbe allora essere l’altra possibilità che Renzi ha dinnanzi. Quella di proporsi lui, eliminato Conte dalla scena, come l’alleato liberal-riformista di un Pd più tradizionalmente socialdemocratico, sempre che quest’ultimo riesca nel frattempo a guarire dalla sua innaturale dipendenza dal movimentismo grillino (da cui è nata l’efficace e giusta battaglia renziana sulla prescrizione).
Al netto delle questioni personali, che mai possono offuscare le ragioni della politica, Renzi sta a Zingaretti come Meloni sta a Salvini: competitori ma nello stesso campo ideale e ideologico. Chiarito questo punto agli occhi degli elettori, anche i consensi di Italia Viva potrebbe, chissà, cominciare finalmente a crescere.
*Editoriale apparso su “Il Messaggero” e “Il Mattino” del 20 febbraio 2020
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