di Alessandro Campi
Per comprendere l’accoglienza – in effetti calorosa – che l’Amministrazione statunitense ha riservato all’Italia e al suo presidente del Consiglio bisogna guardare il mondo dal punto di vista di Washington.
Si scoprirà così che lo State dinner, le foto di gruppo, i sorrisi, le attenzioni protocollari non sono soltanto il regalo che Barack Obama, prossimo a lasciare la Casa Bianca e politicamente senza più ambizioni, ha voluto fare al suo amico italiano che tanto lo ammira e per il quale egli certamente prova una grande simpatia umana. Un regalo talmente generoso da essersi spinto, secondo alcuni osservatori, ai limiti di un’indebita ingerenza nella politica interna del nostro Paese: come le dichiarazioni di aperto sostegno alle riforme costituzionali volute dal governo e oggetto di referendum il prossimo dicembre.
A certi livelli politico-diplomatici non esistono le gaffes, le cadute di stile o le parole dal senno uscite. Ma non esistono nemmeno le relazioni basate unicamente sulla simpatia personale, sulle affinità (e le complicità) generazionali o gli scambi gratuiti di cortesie. L’amicizia tra governanti, anche quando si ammanta di larghi sorrisi e di pacche sulle spalle, è sempre “politica” e come tale va giudicata.
Gli Stati Uniti sono evidentemente molto preoccupati da ciò che sta accadendo in Europa: le divisioni interne tra gli Stati, culminata con l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue; il montare del populismo e della rivolta elettorale contro gli establishment nazionali, che sembra precludere ad una crisi strutturale del modello democratico-rappresentativo; le difficoltà dei governi in carica, di destra e di sinistra, ad affrontare l’emergenza economica e quella dell’immigrazione; le titubanze e le divergenze dei grandi Paesi europei sui temi più delicati della politica estera. Senza contare che il prossimo anno si voterà in Germania e in Francia: due appuntamenti elettorali che potrebbero risultare ancor più destabilizzanti per il Vecchio e malandato continente.
Nulla di strano – se questo è il quadro – che si guardi all’Italia, Paese tradizionalmente inquieto dal punto di vista istituzionale e attualmente impegnato in un’aspra contesa elettorale, con un’attenzione particolare. E nulla di strano che, nella partita referendaria, si faccia il tifo per Renzi. Se dovesse vincere il “No” e quest’ultimo dovesse cadere, ne deriverebbero – secondo la Casa Bianca – instabilità e incertezza. Per l’Italia e indirettamente per l’Europa. Esattamente quello che gli Stati Uniti non vogliono. Specie in una fase che li vede pesantemente impegnati nell’area mediorientale e nella quale si sta assistendo – nel rapporto con la Russia di Putin – ad un ritorno al clima della “guerra fredda”.
Ma la stabilità politico-istituzionale non è la sola preoccupazione americana. C’è anche quella relativa allo stato dell’economia europea: stagnante – come Obama, fautore della spesa pubblica, ha apertamente sostenuto in più occasioni – a causa di un’austerità finanziaria che blocca la crescita produttiva. Una critica all’indirizzo di politica economica perseguito dal governo tedesco che spiega facilmente le aperture diplomatiche e le attenzioni nei confronti di Renzi, che dell’austerità e del rigore nei conti pubblici predicato dalla Merkel come unico verbo economico è stato certamente un critico della prima ora.
Si dirà che nella sua opposizione alla Merkel il premier italiano sinora ha ottenuto poco. Ma in una fase della storia europea che sconta un drammatico vuoto di leadership, una crescente delegittimazione delle classi politiche e un grande vuoto progettuale e di idee da parte di queste ultime, il dinamismo politico renziano, la sua indubbia capacità inventiva, un suo certo anticonformismo, così come la sua determinazione e la sua visione modernizzatrice debbono essere apparsi motivi politici sufficienti per sostenerlo nelle sue scelte di governo: da quelle in materia economica all’impegno dell’Italia nell’accoglienza dei rifugiati (anche su questo tema censurando l’inerzia europea).
Un sostegno che nella prospettiva di Obama (e più in generale del mondo democratico americano) può anche essere considerato una sorta di investimento sul futuro, specie nell’ipotesi di una vittoria della Clinton nella corsa per la Casa Bianca. C’è infatti, tutt’altro che trascurabile, anche un elemento di affinità ideologica che ha guidato la scelta del Presidente americano di concedere a Renzi una così grande apertura di credito. Sempre guardando alla scena politica europea, in particolare all’area della sinistra riformista, non si vede in effetti su quale altro leader progressista si possa fare affidamento, eleggendolo a interlocutore privilegiato, nel momento in cui si assiste al tracollo del socialismo tradizionale o al riaffiorare della sinistra radicale e antagonista.
Resta ovviamente da capire quanto quest’investimento statunitense su Renzi possa rivelarsi lungimirante o semplicemente azzardato. Ma questo lo dirà il tempo e rientra nelle incertezze tipiche della politica.
* Editoriale apparso sul “Mattino” del 19 ottobre 2016.
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