di Carlo Marsonet
John Mearsheimer, politologo presso l’Università di Chicago ed esperto di relazioni internazionali, nell’estate del 1990 pubblicò un saggio sulla rivista “International Security” dal titolo Back to the Future: Instability in Europe After the Cold War. Si tratta, in buona sostanza, dell’ampliamento di una relazione preparata per la conferenza organizzata a Londra, nel febbraio del medesimo anno, in cui i quattro leader occidentali di allora (J. Callaghan, G. Ford – di cui Maersheimer era consulente – V. Giscard d’Estaing e H. Schimdt) avevano l’obiettivo di elaborare una dichiarazione congiunta circa il futuro dell’Europa dopo la Guerra Fredda.
Ora tradotto per l’edizioni “La Vela” (2020, pp. 171, 15 €, traduzione e cura di Roberto Vivaldelli, con prefazione di Sergio Romano, premessa all’edizione italiana dello stesso Maersheimer e ponderosa postfazione di Davide Ragnolini), il saggio del politologo americano, pur datato, rimane attuale soprattutto per la prospettiva adottata, quella realista, caratterizzata per dirla con Barry Buzan, da una “timeless widsom”, una saggezza che non conosce limiti temporali.
La tesi dello scritto è che «se la fine della Guerra Fredda avesse portato l’Unione Sovietica a ritirare le sue forze militari dall’Europa orientale, e gli Stati Uniti a rimuovere le loro dall’Europa occidentale – mettendo così fine rispettivamente al Patto di Varsavia e alla NATO –, sarebbe aumentata significativamente la probabilità di gravi crisi e persino di una guerra» (p. 14). Insomma, dopo la Guerra Fredda il continente europeo si sarebbe trovato in una situazione più pericolosa della precedente. Nonostante le critiche, copiose e accese, che tale tesi causò, Maersheimer ricorda che, dopo tutto, la sua tesi deve essere ancora confutata: gli USA non hanno ritirato le truppe – sebbene sottolinei come il presidente Trump sia piuttosto renitente a focalizzarsi ancora sull’Europa come territorio da “tutelare”: lo sguardo, a causa della Cina, è ormai rivolto verso l’Asia – e la NATO rimane intatta.
Perché questa tesi? «Questa conclusione pessimistica – scrive il politologo – si basa sull’argomentazione secondo la quale la distribuzione e la natura del potere militare sono le cause dell’origine della guerra e della pace. In particolare – continua il Nostro – l’assenza di una guerra in Europa dal 1945 è stata una conseguenza di tre fattori: la distribuzione bipolare del potere militare nel Continente; la rigida uguaglianza militare tra i due stati che comprendono i due poli in Europa, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica; il fatto che ciascuna superpotenza fosse armata di un grande arsenale nucleare» (pp. 26-27). Si tratta, quindi, di prevedere il rischio futuro di guerra riconducendolo a teorie generali riguardo alle cause della guerra e della pace. Come osserva Ragnolini, «Mearsheimer, benché parlasse di futuro, poteva descrivere la vita internazionale riferendosi a un eterno presente: ieri, come oggi, come domani, l’anarchia internazionale “ha” due principali conseguenze, cioè, la fiducia tra stati “è” poca, e ogni stato in ultima istanza “deve garantire” da se stesso la propria sicurezza» (p. 153). L’orologio del realismo è, insomma, ciclico e non lineare. Il sistema internazionale, volens nolens, è anarchico: non esistendo (per fortuna) un super-stato mondiale, ciascuno stato – ieri, oggi, domani – mira a difendere il proprio interesse nazionale. Pertanto, le chiavi della guerra e della pace, vanno ricondotte alla struttura anarchica del sistema internazionale: «il primato della competizione sulla cooperazione, dell’equilibrio di potere sulla trasformazione del potere, della sicurezza sul progresso, e della deterrenza sulla fiducia» regnano in un sistema di questo tipo, ricorda Ragnolini (p. 147).
L’anarchia genera incertezza e l’incertezza essicca la fiducia (già precaria) tra stati: ciascuno deve badare alla propria sicurezza. Il conflitto, insomma, è intrinseco in un sistema siffatto. Tuttavia, nel momento in cui si stagliano due contendenti aventi un potere militare più o meno eguale così come dotati di un abbondante numero di armi nucleari (si badi che, come ricorda Maersheimer, in loro presenza pure i politici si comportano verosimilmente in modo più cauto e prudente), un equilibrio viene raggiunto: ciò è per l’appunto successo nel caso della Guerra Fredda. Tale era un sistema bipolare, sempre preferibile, ricorda il politologo americano, per tre fondamentali ragioni: la possibilità di una guerra è limitata, giacché minore è il numero di coppie in conflitto; la deterrenza è più semplice, in quanto i disequilibri di potere sono inferiori di numero e dunque evitabili più facilmente; gli errori di valutazione circa il potere relativo degli avversari sono meno probabili. Un sistema multipolare, al contrario, ingenera molte più probabilità di conflitto, anche acuto, perché vi è più disordine e incertezza (pp. 42-43), nonché risulterà più complesso il bilanciamento di potere, dovuto, in quest’ultimo caso, non già a mezzi interni (come nel caso di un sistema bipolare), bensì a mezzi esterni come diplomazia e alleanze, passibili di defezioni, ad esempio (p. 49).
Prima della Guerra Fredda, a ben vedere, i pericoli del multipolarismo sono emersi con tutta chiarezza: troppi stati in conflitto (col rischio, tra gli altri, di un ipernazionalismo crescente ed esiziale), mancato equilibrio (eclatante nel caso della Seconda guerra mondiale con la potenza tedesca non contrastata, fino all’intervento statunitense), errori di calcolo prima di entrare in guerra, deterrenza pressoché nulla. Con l’insorgenza dell’ordine bipolare, per contro, il disordine, l’incertezza e i conflitti drammatici vennero meno: non da ultimo, grazie al possesso più o meno equilibrato di armi nucleari. Non si tratta, certamente, di sottostimare i costi della Guerra Fredda: Maersheimer non li nasconde. Nondimeno, egli sostiene che l’ordine bipolare venutosi a determinare dopo il 1945 ha comunque agevolato condizioni di pace ed equilibrio europeo.
Il saggio del 1990 si conclude con un monito: «Se la Guerra Fredda è davvero alle nostre spalle, probabilmente nei prossimi decenni non rivedremo la stabilità degli ultimi quarantacinque anni» (p. 132). Secondo il politologo, il pacificatore americano sarà ancor più fondamentale ora che la Cina minaccia di stravolgere l’architettura internazionale ed europea. Ma, ancor prima, per le motivazioni già addotte precedentemente: senza le forze americane, come si organizzeranno gli stati europei? Emergerà un conflitto per occupare il ruolo di egemone? Vi sarà una proliferazione nucleare? Al netto del ruolo più o meno marginale dell’UE (a seconda della prospettiva valutativa usata nei suoi confronti), emergeranno di nuovo nazionalismi radicali?
Come scrive Ragnolini, su scala internazionale «l’unica certezza politica è l’eterno ritorno della logica binaria stabilità e instabilità» (p. 151). E, per dirla con Kenneth Waltz (uno degli autori, insieme a H. Morgenthau e E.H. Carr, cui Mearsheimer attinge principalmente), «in un mondo bipolare l’incertezza diminuisce e i calcoli sono più facili». Il “Macchiavelli redivivo”, come lo apostrofa il giovane studioso, ci lascia in eredità un insegnamento su cui val la pena meditare, senza pregiudizi ideologici: nonostante «l’ideologia solidarista e i miti fondativi liberali», non è tanto «l’UE […che] ha garantito la pace in Europa, ma l’assetto geopolitico risultato dalla seconda guerra mondiale» (p. 168). Se la verità senza tempo del realismo è valida, allora, occorre forse guardare con disincanto al sistema internazionale per quello che è e per come realisticamente funziona: come conclude Ragnolini «un mondo sospeso in un precario equilibrio di gerarchia e anarchia internazionale, resiliente all’ordine liberale, ma forse rassicurante nella sua razionale monotonia» (p. 171).
Lascia un commento