di Alessandro Campi
Nella giornata in cui si sono pubblicati gli ultimi sondaggi ufficiali sul voto referendario, che registrano il “No” avanti di sette punti e in costante crescita, Matteo Renzi ha tracciato in una conferenza stampa a Palazzo Chigi il bilancio dei suoi mille giorni a Palazzo Chigi. Ciò che ha fatto, illustrato come sempre con l’ausilio di slide, grafici, battute salaci e frasi ad effetto, ma anche ciò che potrà ancora fare se gli incerti (che sono ancora un quarto dell’elettorato) sceglieranno per il “Sì”: alla riforma costituzionale, ma anche e soprattutto a Matteo Renzi e al suo governo. Se c’erano dubbi su quanto questo voto sia in realtà referendum-plebiscito sulla persona, perché così Renzi lo ha sempre inteso e voluto, ieri sono stati definitivamente fugati.
Io o loro. Le mie riforme e la mia voglia di cambiamento contro il loro tentativo di tornare al passato e di mantenere lo status quo. Lo schema è sin troppo esibito e reiterato per immaginare che si tratti di una concessione propagandistica al populismo dilagante, che vive appunto di questa contrapposizione manichea tra il vecchio e il nuovo, tra il bene e il male. La sfida di Renzi, dal primo giorno che s’è affacciato sulla scena nazionale, è consistita nel denunciare come obsoleto e inefficiente un intero sistema politico-istituzionale, insieme agli uomini che lo incarnavano, e nel chiederne una radicale trasformazione. La sua giovane età, il suo dinamismo, la sua schiettezza, la sua estraneità alle vecchie ideologie e cordate di potere erano la credibile base della sua offerta agli italiani: il loro consenso in cambio di un Paese che sarebbe diventato migliore – meno ingessato, più fiducioso nelle sue grandi potenzialità – in breve tempo.
Renzi ha operato al governo – composto da una squadra tutta a sua immagine (e politicamente non in grado di fargli ombra o di contrastarlo) – esattamente secondo questo schema: iniezioni quotidiane di ottimismo, l’annuncio di sempre nuovi traguardi da raggiungere, un ritmo di lavoro forsennato, una baldanza che talvolta è parsa spregiudicatezza, nessuna paura nel dire ciò che pensava, nessun riguardo per gli avversari interni ed esterni che potessero intralciarne i piani. Uno schema in fondo salutare per un’Italia socialmente anchilosata e che sembrava avere come unica alternativa la politica del risentimento e della rabbia incarnata da Grillo.
Questo ritmo e stile durano appunto da mille giorni, nel corso dei quali Renzi ha fatto molto ma anche lasciato a intendere – svelto com’è di parola – più di quanto abbia realmente fatto. Ha realizzato ad esempio una buona (e necessaria) riforma della scuola, ma ha evitato per troppa prudenza di mettere mano alla non meno necessaria riforma della giustizia. Ha innovato il mercato del lavoro attraverso il Jobs Act, ma ha attribuito a questo provvedimento una forza trainante sull’economia che le cifre non hanno mai confermato. Se le tasse (a partire da quelle sulla casa) sono scese, la spesa pubblica è rimasta a livelli stellari. Si sono fatte utili politiche redistributive e d’incentivazione ai consumi (gli 80 euro mensili ai redditi più bassi, il bonus bebè, i 500 euro ai diciottenni), ma è sempre rimasto il sospetto che si trattasse di misure estemporanee e di taglio un po’ troppo elettoralistico. Sul piano della politica internazionale, per fermarci alla cronaca recente, si è scelta un’apprezzabile posizione critica nei confronti della Germania e dell’ottusità burocratica di Bruxelles, ma si è troppo ingenuamente investito nella vittoria della Clinton. Quello renziano è infine un governo che ha operato con coraggio sul versante dei diritti civili (il capitolo delle unioni civili), ma che sta rischiando molto, per responsabilità di chi lo guida, sulla partita per esso politicamente decisiva: il varo, affidato al giudizio popolare, di una nuova Costituzione.
Del Renzi “rottamatore” – delle vecchie alchimie politiche, dell’antiberlusconismo militante, del Pd governato dagli apparati da Prima Repubblica, del sindacato protezionista, delle burocrazie statali, della scuola pubblica in mano ai demagoghi, dell’europeismo retorico – l’Italia aveva certamente bisogno. E non è un caso che egli sia stato accompagnato al suo esordio da una simpatia trasversale e da grandi attese. Ma qualcosa evidentemente è successo nel frattempo se un referendum dall’esito scontato rischia ora di tradursi in una bocciatura.
Renzi – che non amando le critiche potrebbe almeno praticare l’autocritica – dovrebbe chiedersi se per caso non abbia sbagliato nella sua incontinenza comunicativa e nel voler essere sempre ovunque, trascurando come nelle democrazie odierne sia facile per un leader, dapprima apprezzato, raggiungere il punto di saturazione e rigetto. Dovrebbe anche chiedersi se gli sia convenuto, per un eccesso di sicurezza di sé, coltivare quest’idea da leader solitario in lotta col resto del mondo. Un’antica regola della politica vuole che quando hai troppi avversari, per averne ragione singolarmente non potendoli affrontare tutti insieme, devi cercare di dividerli invece di dare loro pretesti e occasioni per unirsi contro di te. Quando infine hai tutti contro, con scarsi o poco affidabili alleati, sei fatalmente destinato a soccombere. E certo non gli ha giovato nemmeno l’impressione che intorno a lui, più che una pattuglia di innovatori della sua schiatta, si sia aggrumata una corte accondiscendente, invadente e non propriamente disinteressata.
Il referendum si vincerà all’ultimo miglio, ha detto ieri Renzi. Due settimane nel corso delle quali per convincere gli indecisi – se è vero quel che abbiamo detto – forse non basterà insistere su quanto sarà bella, giusta, ricca e moderna l’Italia senza più il Cnel. Da Renzi, dopo i funambolismi di Berlusconi e il grigiore dei successivi governi tecnici, ci si aspettava un’idea alta e seria di politica, non quel misto di gigioneria, cattiveria e impulsività verbale che sembra diventato la sua cifra recente. Se quell’idea ce l’ha, la tiri fuori.
*Editoriale apparso (con qualche variazione) sul “Messaggero” e sul “Mattino” del 19 novembre 2016.
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