di Renata Gravina
L’hashtag #occupywallstreet su Twitter è il linguaggio attraverso il quale il movimento americano di ribellione sociale non violenta si è reso effettivo dal 17 settembre scorso. In America la campagna di occupazione con in mezzo più corpi possibili riversati sui prati e per le strade a partire da Wall Street è stata promossa da Adbusters “rivista per l’ambiente mentale” nata a Vancouver nel 1989 come trimestrale da Kalle Lasn, suo direttore.
Già dalla fine degli anni ’80, gli operai di Adbusters realizzano contro-pubblicità per la stampa e la televisione e pubblicità su importanti temi. Il mezzo che utilizzano è lo stravolgimento del messaggio originario attraverso l’ironia, il paradosso e lo shock: la “Culture Jamming”. Ora da oltre venti giorni dallo Zuccotti Park di New York e con un programma assai vasto di diffusione che sembra anticipare immagini di folle divampanti a San Antonio, Houston, Dallas, Seattle, San Francisco gli “indignados” manifestano contro la crisi e la speculazione Usa: sul sito di Adbusters esiste un manifesto programmatico, lo slogan dei giovani che cerca nuove energie ed esorta all’adesione. «Tenendosi alla larga da politiche specifiche – spiega Taylor – i protestatari puntualizzano che indirizzare e trasformare in azione la frustrazione popolare nei confronti delle banche e di Wall Street è una priorità maggiore di quella di dettagliare come dovrebbe essere il cambiamento progressista di Wall Street».
L’ evento ha suscitato riflessioni politologiche ed antropologiche. E’ un movimento libero senza leader e per questo associato a piazza Tahrir, i protagonisti di Occupy Wall Street però sentono di essere – soprattutto per i politici di sinistra – la scintilla di una svolta sociale, culturale e politica. Potrebbero decidere di mutare la propria forma anche per evitare di autodissolversi. La sinistra da parte sua osserva come un Tea Party democratico con crescente interesse, un fenomeno che aveva in principio sottovalutato.
Esponenti del sindacato locale si sono già fatti vedere a Zuccotti Park. A sinistra però per ora si lascia il passo a un realistico progetto: seguire gli sviluppi della protesta e pensare di unirsi ad essa in qualche modo dopo che una sua qualsivoglia forma definitiva si sia delineata.
Lo si capisce bene dalle parole con cui Van Jones ha aperto lunedì scorso la conferenza The Campaign for America’s Future con i big della sinistra americana, da quella clintoniana a quella più movimentista. Van Jones ha detto di avere studiato con attenzione il Tea Party, cercando di coglierne certi aspetti e di aver progettato di dar vita a una nuova spinta unitaria per i democratici. La virtù di Van Jones è la sua lungimiranza. Egli stesso è promotore di un movimento per certi aspetti simile a quello dei ragazzi di Zuccotti Park, anzi si può dire che il suo Take Back The American Dream, che è in azione ormai da mesi, è stato artefice di iniziative di massa molto simili a quelle intraprese da Occupy Wall Street. «Penso – ha detto Van Jones alla conferenza in corso a Washington – che lo spirito sia lo stesso».
Un paragone avanzato ponendosi su un asse più ampio è stato quello con i grandi cambiamenti degli anni Sessanta. Questa volta la protesta “anticapitalistica” avrebbe però l’ambizione di contestare e cambiare elementi “strutturali” della società americana, intendendo colpire al cuore. Non a caso l’accampamento nel distretto di Wall Street ne è la metafora.
A proposito del paragone con le proteste studentesche contro la guerra in Vietnam è interessante ricordare le parole di Herbert Marcuse nelle ultime pagine di La fine dell’ utopia: “quando leggiamo che una parte della popolazione è contro la guerra in Vietnam non dobbiamo dimenticare che è difficile […] stabilire se si tratti di opposizione contro la guerra in quanto tale o di opposizione contro la supposta debolezza e inefficienza con cui viene condotta. In gran parte l’opposizione è contro la debolezza della condotta bellica e non contro la guerra in sé stessa; di questo sono certo”. Marcuse già negli anni ’60 non era convinto della profondità e propensione al cambiamento degli americani. Per questi, uno dei fattori principali che impediscono la trasformazione è l’assenza del bisogno di trasformazione. In America il potere imperialistico in esterno e capitalistico all’interno, creano un’atarassia verso il bisogno, fattore che in sé muove l’individuo all’azione. Non aver compreso ieri la dietrologia del Vietnam equivale oggi per gli americani a non aver compreso la radicalità del malessere globale. Certo, in Italia il bisogno sembra aver lasciato il posto alla categoria della noia (“l’Italie s’ennuie”), mentre negli Stati Uniti il movimento in atto potrebbe avere implicazioni sociali antropologiche e politiche, tutto dipenderà dall’andamento della folla. Sperando che lo sbadiglio italiano non sia contagioso.