di Alessandro Campi
Il governo Monti è, volendo darne un’interpretazione eccentrica, lo specchio nel quale sempre più si riflettono le occasioni perdute dal berlusconismo negli anni in cui quest’ultimo ha avuto la guida del Paese. E questo forse spiega – sul registro psicologico prima che politico – il cambio di atteggiamento del Cavaliere nei suoi confronti: dalle critiche veementi dei primi giorni all’appoggio incondizionato degli ultimi tempi.
Quando s’insediò il governo tecnico, come si ricorderà, nel centrodestra in molti gridarono al complotto, prendendosela chi con il Capo dello Stato chi con i “poteri forti” interni e internazionali. Si parlò di democrazia sospesa e di attentato alla sovranità popolare. Qualcuno si spinse sino ad evocare una specie di colpo di Stato legale. Si disse che un simile governo, nato senza alcuna legittimazione popolare, avrebbe dovuto avere una vita di pochi mesi: giusto il tempo di varare qualche provvedimento economico d’urgenza e poi si sarebbe dovuto tornare alle urne.
Ma strada facendo le cose sono lentamente cambiate. Monti, che accortamente ha sempre avuto parole di pubblico apprezzamento per il suo predecessore a Palazzo Chigi e ha sempre riconosciuto il primato politico del Parlamento e dei partiti che ne sostengono il governo, ha smesso di agitare i sonni di Berlusconi. Le sue misure di risanamento finanziario sono state apprezzate e condivise dal centrodestra. E così i suoi propositi di riforma in materia di liberalizzazioni e di mercato del lavoro. Per non dire del suo stile politico all’insegna della sobrietà e del rigore. Alla fine ci si è persino arresi all’evidenza che quest’esecutivo dovrà durare, nell’interesse dell’Italia e in fondo della stessa politica nazionale, sino alla fine della legislatura.
Da un sostegno condizionato e con molte riserve, espresso come Berlusconi spesso ha detto soltanto per senso di responsabilità vista la crisi economica in atto, si è dunque passati ad un appoggio persino entusiasta, con buona pace dell’ex alleato leghista che ha invece scelto la strada dell’opposizione senza sconti. Il Cavaliere, che sino a poco tempo fa sembrava covare sogni di rivincita contro chi gli aveva soffiato il posto, ora non fa che lodare la serietà, l’impegno e la preparazione dell’attuale Presidente del Consiglio. Alcuni suoi pretoriani, che sino all’altro giorno lasciavano intendere di essere disposti a far cadere il governo in Parlamento o a non votarne i provvedimenti, ora lo dipingono come l’unica salvezza per l’Italia e ne approvano ogni mossa. Quelli che erano algidi tecnici a digiuno di politica, da mandare a casa al più presto, si sono trasformati come d’incanto in governanti risoluti e di larghe vedute.
Si dice che questo radicale cambio d’atteggiamento risponda ad una precisa strategia politica. Dopo essersi accorto che l’attuale governo non ha alternative, Berlusconi si sarebbe deciso a sostenerlo con più convinzione che nel recente passato per sua personale utilità politica. Anche perché sarebbe questo l’unico modo per lui per rientrare in partita dopo un’uscita di scena non proprio esaltante. Favorendo con convinzione l’azione del governo tecnico, Berlusconi da un lato non intenderebbe lasciare troppi meriti al Partito democratico e al Terzo Polo, che all’inizio dell’avventura furono ben più decisi nel sostegno a Monti; dall’altro aspirerebbe ad un ruolo da “padre della Patria”, da politico responsabile e lungimirante, che potrebbe anche lasciargli qualche speranza nella futura corsa per il Colle.
Ma forse c’è un altro motivo – più nel segno di un’amara rassegnazione che di un calcolo opportunistico – che spiega il nuovo corso di Berlusconi. Guardando all’operato di Monti – alle misure che sta varando, al piglio decisionistico che lo contraddistingue, al modo con cui s’è conquistato il consenso degli italiani, al rispetto di cui gode nelle Cancellerie mondiali, al modo caloroso con cui è stato ricevuto da Obama – Berlusconi si deve pur essere chiesto se non era questo che in fondo ci si sarebbe aspettati da lui: che governasse l’Italia con autorevolezza e rigore, forte del suo vasto consenso popolare, che s’applicasse al governo della cosa pubblica con maggiore senso dello Stato e senza stare a rincorrere i sondaggi e suoi bizzarri umori, che s’astenesse dal fare lo spiritoso o il brillante a tutti i costi nei consessi internazionali, che desse corso sul serio ai suoi propositi di rivoluzione liberale, tante volte annunciata e mai perseguita.
Ma osservando Monti e i suoi ministri forse l’intero mondo berlusconiano si deve essere interrogato, in queste ultime settimane, su quale incredibile occasione esso abbia sprecato nel corso di un ventennio nel quale, ora per assecondare le bizze dei leghisti, ora per puro spirito di polemica, ora per il troppo tempo che s’è dedicato a risolvere i problemi personali del Cavaliere, tutto s’è fatto, quando si era al governo, meno che dare corpo ai programmi per i quali si era stati votati dagli italiani. Cavarsela ora con una battuta, dicendo che questo è un vero governo di destra, liberale e riformista, risoluto e votato al bene comune, come ha fatto ad esempio Daniela Santanché, è anche un modo ingenuo per ammettere il proprio fallimento e per abbandonarsi ai rimorsi, per riconoscere di non essere riusciti a perseguire gli obiettivi che ci si era dati.
Da qui la scelta, politicamente necessitata ma fors’anche venata da un qualche tardivo rimpianto, da un senso di cocente disillusione, di sostenere senza più tante condizioni un governo che, a conti fatti, sta facendo molte delle cose che lo stesso Berlusconi aveva promesso di fare, che lui stesso avrebbe potuto realizzare se solo avesse preso sul serio, egli per primo, i suoi solenni proponimenti e non si fosse condannato strada facendo all’irresolutezza. Stando così le cose come potrebbe il Cavaliere, con quali credibili argomenti, togliere l’appoggio ad un esecutivo che forse riuscirà a compiere quei cambiamenti nell’economia, nella società, nella macchina pubblica e finanche nel costume che proprio lui ha tante volte sbandierato e lasciato sperare?
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