di Luca Marfé
Morales scappa e Guaidó spera.
Le dimissioni dell’oramai ex presidente della Bolivia producono una eco che da La Paz giunge fino a Caracas. E, per quanto i destini delle due capitali e dei due Paesi siano lontani nella geografia e soprattutto nella politica, il Venezuela torna a sognare la sua libertà.
E lo fa attraverso il leader dell’opposizione, nonché presidente dell’Assemblea Nazionale e presidente incaricato e riconosciuto da più di 50 Stati, che stringa il cuore in un tweet che a sua volta suona come il rullo di mille tamburi:
«Un venticello?
Quello che si sente è l’uragano democratico dell’America Latina!»
Poche parole, tutte giuste, chissà se sufficienti a risvegliare un presente che, paradossalmente, proprio nella nazione più martoriata del continente, pare essersi addormentato.
La protesta esplode, sì. Ma altrove.
In Cile, in Argentina, in Ecuador. Ultima proprio in Bolivia, dove è scontro tra i sostenitori ad oltranza di Morales e chi viceversa lo giudica giusto a metà tra dittatore e usurpatore.
In Venezuela, invece, tutto tace.
Le ragioni principali sono due.
L’assoggettamento dello Stato al ricordo di Chávez e alla struttura del partito socialista che tiene le chiavi del potere ben salde nelle mani sbagliate.
E, ancor più grave, l’assoggettamento culturale che condanna i venezuelani alla rassegnazione di un (non) futuro, nella migliore delle ipotesi da esuli e nella peggiore da schiavi.
Incredibile, insomma, come mentre tutto tremi, Maduro sia lì, immobile e addirittura stabile, complice una Comunità Internazionale ogni giorno un po’ più inerme e un po’ più corresponsabile di un disastro chiamato Venezuela.
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