di Salvatore Sechi
Su almeno due dei grandi processi che hanno visto coinvolti aspetti e personaggi della Repubblica (l’assassinio di Aldo Moro, per un verso, e dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino per un altro) si è ascoltata la stessa musica: c’è stato un negoziato, la ricerca di un’intesa concordata tra poteri terroristici-criminali e lo Stato.
Sulla trattativa Stato-mafia disponiamo di sentenze, dirette e indirette, anche radicalmente diverse a seconda dei processi in cui sono state emesse.
di Salvatore Sechi

Su almeno due dei grandi processi che hanno visto coinvolti aspetti e personaggi della Repubblica (l’assassinio di Aldo Moro, per un verso, e dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino per un altro) si è ascoltata la stessa musica: c’è stato un negoziato, la ricerca di un’intesa concordata tra poteri terroristici-criminali e lo Stato.

Sulla trattativa Stato-mafia disponiamo di sentenze, dirette e indirette, anche radicalmente diverse a seconda dei processi in cui sono state emesse. L’ultima, curata dai giudici della Corte d’Assise di Palermo Alfredo Montalto e, a latere, Stefania Brambilla, ha cercato di dare una risposta ampia e univoca sul modo in cui sarebbe avvenuta. Ma il primo grado apre la strada a giudizi che, dopo la pubblicazione delle motivazioni, sono stati preannunciati e potrebbero anche essere molto diversi.

Sul sequestro, la detenzione e la morte del leader democristiano Aldo Moro, lo scorrere del tempo non è stato giustiziere. Dopo circa quaranta anni, la Commissione d’inchiesta presieduta dal sen. Giuseppe Fioroni quasi all’unanimità nel testo di relazione proposto ha sentenziato sull’esistenza di “un negoziato politico-giudiziario”. A formularlo è stato l’ex parlamentare comunista Sergio Flamigni, seguito da Stefania Limiti, Sandro Provvisionato e Paolo Cucchiarelli.

Avviata negli anni Ottanta, i contraenti di questa operazione (cioè le Brigate rosse e lo Stato) avrebbero dato luogo ad una micidiale “alterazione della verità”. Secondo la relazione citata ad essa avrebbero concorso “una pluralità di soggetti che operarono attorno al percorso dissociativo di Morucci: i giudici istruttori Imposimato e Priore, il Sisde, alcune figure di rilievo della politica e delle istituzioni, suor Teresa Barillà” (p. 138).

Vladimiro Satta, documentarista presso il Senato, è lo studioso più accurato dell’affaire Moro. Le sue analisi sono sempre state misurate sull’indipendenza della ricerca e sulla completezza delle fonti documentarie. Di conseguenza la sua presenza sui mass media (dai quotidiani alla tv) è molto rara o occasionale. Grava su di lui un peccato d’origine ineliminabile che lo condanna alla solitudine: quello di essere assai poco facile preda di tesi e pregiudizi politici.

Satta si affida al metodo di lavoro (per nulla idealistico, anzi semmai positivistico) degli storici, cioè l’ancoraggio ai documenti, la formulazione di domande che siano legate a questioni reali, non inventate, la cura per la risposta specifica che non lasci nulla a fantasie o a costruzioni ideologiche. Di quanti degli storici (sempre lo stesso giro, quasi una casta) che hanno accesso ai numerosi programmi di storia (grande e piccola, nazionale e internazionale) dei canali televisivi si può dire altrettanto?

Fabio Lavagno, membro della Commissione parlamentare d’inchiesta su Moro-2, è anch’egli restio ad assecondare le movenze del grande gregge parlamentare. Infatti è stato l’unico deputato sui sessanta non ad astenersi (l’atto in cui si esprime il massimo di coraggio di deputati e senatori), ma a votare contro la proposta di relazione sul caso Moro presentata nel 2017. A farlo fu il presidente diessino della Commissione d’inchiesta sen. Giuseppe Fioroni. Insieme al deputato piemontese della sinistra diessina, Satta ha passato in rassegna i lavori di quest’ultimo organo statale. E li ha messi a confronto con gli esiti delle inchieste giudiziarie e parlamentari e delle ricerche storiografiche del passato.

Il lavoro si intitola Moro. L’inchiesta senza finale (Edup, Roma 2018). La lettura del libro è indispensabile (e quindi da consigliare) per quanti all’incanto fascinoso delle narrazioni da ghost story preferiscono le analisi in cui nulla venga concesso alle contese politiche e al sensazionalismo degli scoop.

In che cosa è consistito il lavoro, le conclusioni della Commissione quater su Moro? Sulla base del presupposto metodologico prima accennato, Lavagno e Satta negano che nelle inchieste sul caso Moro abbia preso corpo un negoziato tra le Brigate rosse e le istituzioni statali nell’intento di creare “una verità di comodo”.

In secondo luogo ribadiscono “l’incompiutezza, per non dire l’inconcludenza, dei quarantennali tentativi di contrapporre un’alternativa alla ricostruzione giudiziaria della vicenda Moro, formatasi nel 1983”. A condividerla furono i parlamentari dell’epoca come la più autorevole storiografia. Penso ai lavori di Richard Drake e Marco Clementi, e ai saggi di Giovanni Sabbatucci e Vittorio Vidotto.

A chi vuole avere un modello di come sia possibile tagliare l’erba ai piedi della dietrologia e della cospirazione viene offerta una buona profilassi. Tanto più necessaria quanto più risponde a verità il rilievo dell’on. Lavagno: “il complottismo sulla vicenda Moro (…) sembra essere diventato il modo più logico per spiegare le cose. Le teorie del complotto per quanto assurde diventano di fatto un modo per semplificare la complessità degli eventi e delle dinamiche e spesso assumono carattere autoassolutorio” (p. 62).

Nel suo lavoro di scavo e di verifica, Satta non si genuflette e neanche si piega ai riti sempiterni delle mediazioni. Col lavoro collegiale guidato dal sen. Fioroni è rispettoso, ma implacabile. Ad essere presa di mira, contestata e rivoltata come un calzino è la tesi secondo cui l’esistenza di un “negoziato politico-giudiziario” inventata negli anni Ottanta avrebbe posto un’ipoteca, se non condizionato negativamente e anche in maniera purtroppo decisiva, la ricostruzione del caso Moro. Il riferimento è a quanto risultava da cinque procedimenti giudiziari, dall’inchiesta parlamentare degli anni Ottanta, dalle acquisizioni ottenute tramite le operazioni di Polizia e Carabinieri ecc.

Tutto il rigore necessario viene impiegato, perché sull’affaire Moro possa emergere il volto di una verità e non una silloge di ipotesi, deduzioni, processi e sentenze minati dalla mancanza o dall’insufficienza di prove.

Le conclusioni a cui si perviene in questo interessante saggio sono le seguenti.

Il sequestro, la detenzione e l’uccisione di Moro furono interamente opera dei brigatisti e coerenti con l’idea che la lotta armata fosse lo strumento adeguato per realizzare la rivoluzione comunista.

Le Br non si limitarono a trattare una soluzione della vicenda Moro col solo Psi, ebbero come obiettivo “la Dc e il suo governo”. Avendo questi, insieme al Pci, optato per la linea della fermezza, ogni intesa fu impossibile.

Non ci fu nessun patto scellerato tra Stato e Br finalizzato ad elaborare una “verità dicibile”, cioè a manipolarla, come risulta dalle audizioni di Ferdinando Imposimato, Rosario Priore, Luciano Violante, Franco Ionta e Antonio Marini.

La “legislazione premiale” (a partire da quella sulla dissociazione) varata dal governo nel 1982 e nel 1987 ebbe il consenso della Chiesa, della famiglia Moro, dei giuristi cattolici e di un fronte molto ampio e variegato.

Per quanto le Br l’abbiano contrastata anche con episodi sanguinosi, fu concepita per contrastare il loro terrorismo. Ma non fu mai “un pegno pagato dal legislatore agli assassini di Moro”. A trarne il maggiore beneficio non furono, infatti, le Br (con la sola eccezione di Azzolini e Bonisoli), ma i militanti di Prima linea.

Dunque, il negoziato politico-giudiziario per alimentare una ricostruzione falsa dei fatti, con la complicità dei protagonisti, non è esistito.

 

Lascia un commento

Your email address will not be published. Required fields are marked (required)