di Alessandro Campi
Governo fatto, capo ha. E hai voglia a dire che sarebbe stato meglio andare alle urne per rispettare la volontà popolare. Chi può farsene interprete autentico e unico? Tampoco ormai serve gridare all’inciucio trasformista (che effettivamente c’è stato) o al complotto mondiale (puramente immaginario). Le regole della democrazia parlamentare sono evidentemente più cogenti della propaganda che le contesta nel nome della legittimità sostanziale. E ciò per la semplice ragione che nella politica contemporanea è la legalità costituzionale che fonda la legittimità.
Dopo settimane di discussioni, polemiche e affanni abbiamo dunque un governo che politicamente è giusto definire Conte uno. Dal momento che quello precedente, pur guidato dal medesimo Conte, era in realtà il governo Di Maio-Salvini: gli alfieri di un cambiamento che non c’è stato, a causa dei continui litigi all’interno della coalizione, o che – per essere indulgenti – è rimasto allo stato di intenzione. A conferma che la vera debolezza del populismo è lo scarto tra le facili promesse elettorali e l’incapacità a realizzarle quando si è al governo.
Nel frattempo è nato uno statista che, sia detto con una punta d’ironia, non sapevamo d’avere. Creatosi un vuoto enorme, Conte lo ha riempito ricorrendo ad un’antica pratica del potere italico: il trasversalismo di stampo curiale. I suoi dante causa si sono affossati a furia d’agitarsi sui social, convinti com’erano che occupare la scena pubblica fosse il compito esclusivo del vero politico. Lui si è imposto muovendosi con passo felpato dietro le quinte, stringendo rapporti e relazioni personali con i rappresentanti del potere autentico, che negli Stati contemporanei è sempre quello tecnico-burocratico. Il resto lo hanno fatto le cancellerie internazionali interessate ad un’Italia politicamente normalizzata, o semplicemente meno ambigua nelle sue scelte di politica estera.
Vista finalmente la lista dei ministri (che giureranno oggi al Quirinale) chi vince e chi perde, per dirla grossolanamente? E cosa debbono ragionevolmente aspettarsi gli italiani da un governo nato da un patto sino al giorno prima giudicato impossibile e innaturale dagli stessi contraenti?
I numeri, cioè le poltrone, dicono che il Partito democratico ha ottenuto più di quanto avesse la Lega nel precedente esecutivo: nove ministri, alcuni dei quali d’indubbio peso: l’Economia, la Difesa e le Infrastrutture (ma aggiungiamoci la Salute per la sinistra di Leu). Quasi un rapporto alla pari. Dalla distribuzione si capisce che non è passata l’idea di Conte di presentarsi come neutrale o super partes rispetto ai partiti che lo sostengono. La sua affiliazione è con il M5S ed è in questa veste che il Pd lo ha eletto a interlocutore privilegiato durante tutta la trattativa. Il che basta a spiegare i continui irrigidimenti di Maio finiti con la compensa lussuosa che gli è stata concessa alla Farnesina e con la nomina di un suo fedelissimo alla segreteria di Palazzo Chigi. Se Conte aspira davvero a fare il capo politico del M5S dovrà vedersela con chi quel ruolo ha rivestito sin’ora e che certo non intende rinunciarvi solo perché nel frattempo Grillo ha cambiato idea sul suo conto.
Indicativa (anche se largamente annunciata) la scelta di un prefetto per il Viminale. Si vuole spoliticizzare il ministero che ha consentito a Salvini la sua ascesa sino all’altro ieri irresistibile (ma come si è visto fragile per essersi troppo concentrato sulla propaganda alla sua persona attraverso i social). Ma l’immigrazione è materia polemico-politica in sé, come si vede in tutta Europa: rischia di essere illusoria l’idea di poterla gestire per via puramente amministrativa o ricorrendo al buon senso.
E qui si apre una questione interessante. Nel suo rapporto con i grillini Salvini ha avuto la capacità di piegarli verso i suoi temi, imprimendo al governo il suo ritmo e il suo linguaggio. Questa è una forza o capacità politica che prescinde dai numeri. Riuscirà il Pd a fare altrettanto o subirà la pressione ideologica del M5S quando si tratterà di fare le prime scelte importanti?
Appunto, le scelte, ciò che al dunque conta più per i cittadini. Si dice che questa maggioranza presenti maggiori affinità rispetto alla precedente. Ma se così è dovrà dimostrarlo nei fatti, al di là delle intenzioni o delle aspirazioni, evitando la tentazione del galleggiamento (nell’attesa che giunga la data in cui si dovrà scegliere il nuovo Capo dello Stato), i compromessi al ribasso o, peggio ancora, la pratica anch’essa molto italiana dell’indecisione e del rimando.
In attesa che dall’amalgama tra le due forze nasca la sinistra del terzo millennio, come auspica Grillo, ci si chiede più prosaicamente quale strada verrà concretamente imboccata. Questo governo sarà riformista o movimentista, non potendo essere alla lunga le due cose insieme? Sceglierà il decreto dignità o il Jobs Act? Il rigore sulla sicurezza (seppur declinato secondo una visione solidarista) o l’accoglienza in chiave di lassismo umanitario? Washington e Bruxelles o Pechino e Caracas (ora che Mosca è fuori gioco)? Gli investimenti in opere pubbliche o il blocco dei cantieri? La crescita apportatrice di benessere e felicità o il pauperismo triste? L’eguaglianza delle opportunità o l’egualitarismo ideologico?
Il programma presentato da Conte al momento brilla soprattutto per vaghezza e genericità, in attesa d’essere riempito di contenuti. E si segnala anche per certi repentini ripensamenti, come nel caso delle politiche per Roma. Il giorno prima ci si dava l’obiettivo, enfatico ma anche un po’ umoristico visto lo stato di obiettiva incuria in cui la città versa, di renderla nuovamente “attraente”. Il giorno dopo di tutto ciò con c’è più traccia e della Capitale si parla solo a proposito della revisione del testo unico sugli enti locali. La preoccupazione di dover dare risposte al Nord produttivo (per evitare di consegnarlo in blocco all’opposizione leghista) è comprensibile. Ma può giustificare quasi la vergogna – per un governo a forte trazione meridionalista – a parlare di Roma (e dei suoi problemi) per quel che essa è realmente: la Capitale d’Italia, non una semplice realtà metropolitana.
La carta segreta di questo governo è la sua rinnovata e facilitata interlocuzione con l’Europa. Potrebbe derivarne una maggiore flessibilità, anche se l’Europa di suo non fa sconti, specie ad un Paese costantemente sotto osservazione qual è l’Italia a da anni a prescindere dalle maggioranze che lo governano. Ma avere più credibilità e maggiori margini di manovra finanziaria può non significare nulla se poi si fanno le scelte sbagliate o non finalizzate all’obiettivo della crescita e dell’innovazione. Torna dunque l’enigma e l’attesa per le scelte concrete (e dirimenti) che questo governo farà, al di là dei buoni propositi.
Con l’avvertenza e la consapevolezza che esso è nato da uno spettacolo nel complesso poco edificante. Se il problema storico della democrazia italiana è ricostruire il rapporto di stima e fiducia con i suoi cittadini, la strada percorsa in queste settimane non è stata esattamente quella giusta. Con i leader di tutti i colori politici – da Salvini a Renzi, da Di Maio a Berlusconi, da Grillo a Zingaretti – impegnati a rimangiarsi le cose dette la settimana prima, o a fare cose diverse da quelle promesse e annunciate. Tutti traditi, ma tutti traditori, senza alcuna coerenza, quasi a voler confermare il cinico e rabbioso scetticismo con cui gli italiani guardano da almeno due decenni ai loro rappresentanti politici. Immaginiamo dunque quel che potrebbe succedere se anche questo governo, per mancanza di coraggio o per l’affiorare al suo interno di troppe contraddizioni, dovesse rivelarsi l’ennesima occasione persa. O l’ennesimo inganno a danno dei cittadini-elettori. A quel punto, nemmeno Grillo, il campione mondiale dell’antipolitica, si salverebbe dall’onda che sinora ha cavalcato. E per la democrazia italiana sarebbe davvero la fine, per giunta assai ingloriosa.
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