di Giulio Ferracuti

Agli occhi di un giovane osservatore del mondo, rassegnato forse ma pur sempre attento, l’assegnazione del Premio Nobel per la pace all’Unione Europea sembra rappresentare la sconfitta definitiva del buonsenso, sacrificato per consacrare il trionfo del modello dello spettatore sul cittadino.

Un tempo erano i fatti a contare. Poi a diventare rilevante è stata la loro interpretazione, nel momento in cui si è capito quanto la realtà potesse essere profondamente modificata controllandone la sua rappresentazione. Oggi, fatti e interpretazioni, sono entrambi morti, sgomberano il campo in favore della ricezione, passiva, vera caratteristica del tempo in cui viviamo.

A voler essere pignoli, la storia stessa dell’inventore Alfred Nobel scredita l’idea di un premio alla pace a suo nome. Passi per i brevetti sulla dinamite e altri esplosivi, il cui uso può tranquillamente oltrepassare la visione del semplice strumento di morte. Non si può tuttavia dimenticare che si deve proprio a Nobel la riconversione dell’industria del ferro e dell’acciaio Bofors in una struttura dedita esclusivamente alla costruzione di armamenti. Iniziava, grazie a lui, la storia moderna del gruppo che oggi è parte di BAE Systems, numero due (o forse uno) tra le multinazionali nel campo della sicurezza e della difesa, con un fatturato capace di mettere in ombra le cifre gestite dagli Stati nelle loro manovre finanziarie. Questa però, oggettivamente, è un’altra storia. E a me, al momento, non interessa.

Non voglio soffermarmi neppure sulle qualità dimostrate negli anni da alcuni precedenti vincitori dello stesso premio. Troppe sono già le parole sprecate per commentare la visione ampia e profondamente pacifista di Kissinger, Arafat, Rabin, Shimon Peres o Barack Obama. La storia certo conta, ma non si può cambiare, ed è esclusivamente sul presente che va posta l’attenzione.

L’Unione Europea, dunque, merita un premio. Un riconoscimento per il contributo che, in oltre sei decenni, ha dato alla promozione della pace, della riconciliazione, della democrazia e dei diritti umani in Europa. La forma, a prima vista, sembra salva, e capace di relegare le possibili polemiche alla voce antipolitica. Sembra salva perché, a ben pensarci, l’Unione Europea altro non è che un raggruppamento di Stati, uniti all’interno di un’entità politica transnazionale dai contorni incerti, tendenzialmente anomala, ancora in cerca di una sua compiuta caratterizzazione.

L’Unione Europea, priva com’è di un esercito europeo e di una politica estera comune, non può per definizione essere coinvolta direttamente in un conflitto. Forse, tutt’al più, sono gli Stati di cui è composta che potrebbero partecipare ad una guerra. Il dibattito, da questo punto di vista, è però da tempo concluso in modo definitivo, stabilito una volta per tutte che l’Occidente ha a cuore il destino dei popoli del mondo e che mette il gioco il suo arsenale militare solo per operazioni di peacemaking, peacekeeping, peace enforcement e peace building. Esclusivamente, dunque, nel momento in cui si decide di fare la pace, di mantenerla o di imporla. Non posso soffermarmi neppure su questo dettaglio. Anche perché, tecnicamente, nelle poche righe che motivano l’assegnazione del Premio Nobel, il resto del mondo non compare neppure. Pace, riconciliazione, democrazia e diritti umani in Europa. Questo conta. Essere riusciti per più di sei decenni a combattere solo all’esterno dei propri confini europei è già un successo. Da ragazzo nato a metà degli anni Ottanta non posso che riconoscerlo, e devo rendere grazie per questa immensa fortuna, non concessa invece ai miei nonni. Eppure, pur non avendo vissuto in prima persona una guerra in Europa, ho profondamente da ridire su una questione.

Nella stessa città simbolo del Premio Nobel per la Pace, Oslo, è nato anche uno studioso che tanto ha contribuito agli studi sulla pace e sulla trasformazione dei conflitti: Johan Galtung. Tra i suoi più importanti contributi va citato il tentativo di problematizzare i conflitti e la concezione che normalmente si ha di essi. Questi infatti, per essere compresi, vanno inseriti in una dimensione più ampia e complessa rispetto al semplice scontro, che tenga conto anche degli aspetti culturali e strutturali, oltre che della più immediata e visibile violenza diretta.

Sulla scia di quanto è stato insegnato da Gandhi e dall’esperienza dei movimenti nonviolenti, Galtung osserva che è scorretto contrapporre la guerra alla pace, pensando che la seconda prosperi automaticamente in assenza della prima. Opposta alla pace, infatti, è la violenza, non la guerra in quanto tale. La guerra identifica piuttosto una particolare forma di violenza: organizzata, strutturata, portata da uno Stato e rivolta verso un nemico esterno.

Che nell’Unione Europea non ci siano guerre è dunque un fatto di per sé evidente. Che all’interno dei suoi confini si promuova la pace, intesa come assenza di violenza, è invece tutto da dimostrare.

Forse sono particolarmente sensibile, forse solo ingenuo. Sta di fatto, però, che non ritengo sia esattamente il momento migliore per parlare di democrazia e diritti umani in Europa.

Il concetto di deficit democratico dell’Unione Europea, determinato dalla scarsa partecipazione dei cittadini alle istituzioni comunitarie, è oggi reso obsoleto e abbondantemente superato dalle misure imposte dall’alto, necessarie per far pagare ai cittadini una crisi che non hanno, neppure in minima parte, contribuito a creare. Nessun dibattito è stato instaurato per valutare l’esistenza di possibili alternative alla ricetta prescritta, nessun dialogo con le persone. Nessun bisogno di confrontarsi con gli elettori, con buona pace dei principi di responsabilità e rispondenza, che tanto dovrebbero caratterizzare il metodo democratico secondo gli scienziati politici. In alcuni casi, in un’Unione Europea premiata per la promozione della democrazia, i governi in carica non sono neppure stati eletti.

Sono molteplici le forme di violenza che si possono infliggere o subire, e non sempre richiedono l’uso di armi da parte di uno Stato.

Chi non ci sta, chi ha perso tutto, chi manifesta, sperimenta sulla propria pelle il vero significato della riconciliazione: in Spagna, Grecia, Portogallo il rispetto dei diritti umani è sospeso, a tempo determinato, ogni qual volta la situazione per le strade e nelle piazze lo richieda; la decisione esclusiva spetta a chi è al governo.

Forse, per assurdo, sarebbe stato più corretto assegnare il Premio Nobel per la pace ai cittadini dell’Unione Europea, non alle sue istituzioni.