Daniela Piana*
Sarebbe superficiale fare ora il bilancio di quali effetti, cognitivi, culturali, emotivi, l’emergenza sanitaria e soprattutto le misure che sono state adottate per contrastarla nel nostro paese hanno innescato. Ma almeno una cosa la possiamo dire con certezza. Come mai prima e con una inedita forza dirompente le italiane e gli italiani di ogni età stanno costruendo l’esperienza quotidiana di quello che gli studiosi discutono nelle loro sedi accademiche come effetto di interdipendenza.
L’interdipendenza è una cosa complicata da studiare, anche per gli scienziati sociali e politici che ci si dedicano con pervicacia. È una di quelle cose la cui conoscenza, la cui previsione e la cui analisi funzionano come generatori di entropia cognitiva, appena pensi di avere trovato il bandolo delle matassa, tu lo tiri, e la matassa cambia forma. Così devi cambiare bandolo. Detto in modo non tecnico, l’interdipendenza è quella cosa che accade quando l’insieme delle azioni di singole persone generano conseguenze che in modo non controllabile da ciascuna di esse danno luogo a fenomeni nuovi, i quali poi hanno un impatto sulla vita delle persone come singoli.
Un modo semplice per dire l’interdipendenza è quello che si adotta quando si dice che siamo parte di un sistema. Tocqueville usava parlare di interesse bene inteso per dire come i cittadini avessero interiorizzato – e conseguentemente modificato le loro preferenze di comportamento – il fatto che il buon funzionamento del contesto collettivo fosse una condizione facilitante al buon funzionamento della loro vita individuale.
Detta cosi, l’interdipendenza sembra proprio essere un modo di pensar(ci) che permette di prenderci ciascuno le responsabilità per le conseguenze generate e soprattutto di essere pronti a impegnarsi nel governare cio’ che di nuovo il nostro agire individualmente, una volta aggregato in una società, puo’ fare emergere.
Ma una cosa è una categoria analitica, e una cosa è la costruzione sociale della realtà.
No, non si tratta di essere costruttivisti, al contrario. La realtà reale per gli individui è quella che assume un significato oggettivo, di cui si dà per asseverata l’esistenza, di cui si è certi che sia realtà per noi e per gli altri. La costruzione sociale di tale realtà passa dalla cognizione esperienziale che ciascuno ha della vita sociale.
Ed è qui che arriva, con la forza drammatica e dirompente di uno tsunami cognitivo, la misura di restrizione delle libertà individuali per fare fronte alla emergenza del codiv 19.
È rilevantissimo che siano le libertà ad essere in gioco. Perché sono proprio le libertà che hanno una dimensione reale costruita socialmente negli anni del dopo guerra e via via trasmessa come una “reificata” transoggettività. La connettività e la iper mobilità del tardo XX secolo e soprattutto del primo ventennio di questo secolo hanno esponenzialmente rafforzato il vivere la libertà come un acquis. Connessi con tutto il mondo e tutti i mondi, mobili attraverso i confini, in qualsiasi momento della giornata e della vita, la libertà si è progressivamente scostata dalla sua cognizione sociale giuridica – un diritto acquisito, come potevano averla le generazioni del dopoguerra – per diventare un modus operandi, ancor prima di una modalità del pensare. Anche perchè nel momento in cui una modalità di vivere viene data per scontata – ossia diviene un tacito della realtà socialmente vissuta – non si adotta alcuna postura distanziata rispetto ad essa.
Cosa c’entra tutto questo con l’interdipendenza? Che la declinazione della libertà è una declinazione che necessita di una prima persona plurale; è perché siamo nelle condizioni di assicurare eguale “scope” di libertà per ciascuno che è legittima la libertà di ognuno. Insomma è la sostenibilità dell’insieme delle regole che assicura il godimento dei diritti.
Il passaggio dal ragionamento all’esperienza ha di drammatico il contesto e la causa, ma saremmo, si’ miopi, se non vedessimo nelle manifestazioni di civismo, di visione che travalica i confini del monadismo auto-regolatore, una finestra su quelle capacità di pensarci interdipendenti di cui forse ci eravamo, come per svista, dimenticati.
*Daniela Piana è Professore Ordinario di Scienza Politica nell’Università di Bologna
Lascia un commento