di Alessandro Campi
È casuale questa escalation di conflitti armati ai confini dell’Europa (dall’Ucraina alla Libia, dalla Palestina alla Siria) o è la conseguenza della sua debolezza e latitanza politica, il risultato di una crisi del Vecchio Continente che non è soltanto economica, ma investe la sua stessa identità storica, la sua architettura istituzionale, la sua capacità ad agire sulla scena internazionale in modo risoluto ed energico, sulla base cioè di un’immagine del mondo e dei suoi problemi che non si limiti alle enunciazioni di principio, ai buoni sentimenti e alle formulazioni retoriche?
La domanda viene spontanea dopo che ieri ha trovato conferma la notizia che truppe russe, pesantemente armate, hanno valicato il confine ucraino all’altezza della città di Novoazovsk, sul mar d’Azov. Appena tre giorni fa, il faccia a faccia in Bielorussia tra Petro Poroshenko e Vladimir Putin aveva fatto sperare in una pacifica soluzione del conflitto tra i due Paesi. Si può a questo punto alzare la voce nei confronti del leader russo, come sembra abbia fatto a nome dell’Unione Euoropea Matteo Renzi, che al telefono con il Cremlino ha definito una “escalation intollerabile” il sostegno militare offerto da quest’ultimo alle milizie indipendentiste filorusse che lottano contro Kiev. Ma oltre a denunciare la doppiezza diplomatica di Putin e le sue mire imperialistiche, forse bisognerebbe anche chiedersi cosa autorizza e legittima un comportamento politico tanto spregiudicato. Mosca agirebbe allo stesso modo, con un misto di arroganza e cinismo, se avesse di fronte una leadership europea unita, determinata e pronta ad agire? Si può fare paura ad un uomo come Putin – un nazionalista armato sino a denti che sogna la Grande Russia e detiene sconfinate ricchezze energetiche – minacciando nei suoi confronti sanzioni economiche in campo alimentare o congelando qualche conto bancario ai suoi amici oligarchi sulle piazze finanziarie occidentali?
L’esperienza storica – a partire da quella europea del Novecento – insegna che nulla motiva più un autocrate o un aspirante guerrafondaio, per quanto pazzo sia, che la certezza razionale di avere dinnanzi a sé contendenti imbelli o irresoluti, che tengono più al proprio benessere e ai propri affari che a lottare per la difesa di giusti principi. Se il mondo oggi si trova in una situazione di caos, se hanno ripreso a circolare strane idee, tipo rifondare il califfato islamico o riportare la Russia al suo antico prestigio imperiale, è anche perché si è diffusa l’impressione, non del tutto infondata, che l’uso della violenza nei rapporti internazionali non trovi più alcuna sanzione (al massimo suscita un moto di deprecazione e parole di condanna) e si è radicato il convincimento, fondato anch’esso, che sulla scena internazionale non esista più un attore politico – individuale o collettivo – in grado di intervenire con risolutezza e tempestività, ricorrendo se necessario alla forza, laddove si profila una crisi militare o una minaccia armata.
L’Onu è semplicemente impotente, a dispetto di chi continua a considerarlo il garante della pace mondiale. Gli Stati Uniti guidati da Obama sembrano aver scelto la via del disimpegno da tutte le aree calde del pianeta, come dimostra in modo esemplare l’atteggiamento indeciso e oscillante tenuto nei confronti della Siria: per mesi si è discusso se bombardare l’esercito di Assad, dopo che quest’ultimo era ricorso alle armi chimiche contro i civili, adesso si discute se sostenerlo dinnanzi all’avanzata dello Stato islamico e degli jihadisti sunniti. Il risultato, ad oggi, è la mancanza di qualunque forma diretto di intervento, nella speranza che siano gli stessi Paesi arabi (dall’Egitto all’Arabia Saudita, dal Qatar alla Turchia) a muoversi contro la minaccia rappresentata dai fondamentalisti islamici. Si può affidare ad altri la propria difesa?
Ma la palma della debolezza e dell’indecisione, in questa fase storica, spetta senza dubbio all’Europa. Che da un lato paga con gli interessi sue antiche colpe storiche legate al periodo coloniale, se è vero che molte degli attuali conflitti discendono dalle grossolane spartizioni di territori e popolazioni operate per far nascere Stati che ci si illudeva di poter controllare proprio in virtù dei conflitti religiosi ed etnici che storicamente li dividevano e che gli europei si sono guardati ben dal risolvere (il caso dell’Iraq è da questo punto di vista esemplare). Dall’altro sconta la mancanza di una politica estera che sia per davvero unitaria e di un visione condivisa dei propri interessi: gli Stati europei, come dimostra proprio l’atteggiamento che essi hanno tenuto nei confronti della Russia da quando è cominciata la crisi ucraina, continuano a marciare ognuno per proprio conto, convinti così di salvaguardare al meglio i propri interessi soprattutto economici.
Oltre alla politica miope degli Stati c’è però anche un problema d’ordine storico-culturale da non sottovalutare. L’Europa più che debole e divisa è stanca. Ha abbracciato, forse a causa delle guerre drammatiche che per secoli si sono combattute sul suo suolo, una filosofia della storia genericamente ottimista e pacifista che le impedisce di cogliere le cause profonde e reali delle tensioni che attualmente stanno sconvolgendo il mondo. Forse perché abbiamo conosciuto le guerre civili di religioni, la capacità di mobilitazione del nazionalismo, il fanatismo ideologico, la forza dirompente delle appartenenze etnico-religiose, il carattere mobilitante dei miti storici collettivi, ci rifiutiamo di riconoscere questi fattori di scontro politico ora che hanno fatto la loro comparsa in altri angoli del mondo. Ma chiudere gli occhi dinnanzi alla realtà e fuggire dalla storia non serve a risolvere le contraddizioni del mondo e a garantirsi un’esistenza tranquilla. La guerra è già ai nostri confini. Basta un nulla per ritrovarsi i nemici in casa.
*Articolo apparso sui quotidiani “Il Messaggero” (Roma) e “Il Mattino” (Napoli) del 29 agosto 2014.
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