di Danilo Breschi
“Nel mio mondo, la parola compromesso è sinonimo di vita. E dove c’è vita ci sono compromessi. Il contrario di compromesso non è integrità e nemmeno idealismo e nemmeno determinazione o devozione. Il contrario di compromesso è fanatismo, morte”. Così ha detto lo scrittore Amos Oz in una delle tre conferenze tenute all’Università di Tubinga poco più di dieci anni fa. Ovviamente, il mondo di Oz è quello del sanguinoso, interminabile conflitto israeliano-palestinese, ma non è poi mondo così distante dal nostro, europeo ed italiano, e occidentale tutto, dal momento che lo spunto di quelle lezioni nasceva (anche) dall’eco dell’attacco terroristico alle Torri Gemelle.
Ma non è di terrorismo che intendo qui discutere. Piuttosto dell’atteggiamento mentale che spesso si cela dietro ad esso. E voglio anche discutere brevemente della faciloneria nostrana, di quell’eccessiva leggerezza e colpevole superficialità che impera da anni e con cui si è soliti evocare la parola “compromesso”, ogni volta che la si associa alla sfera politica. E come la si pronunci quasi sempre con disprezzo e odio, traducendola spesso con l’espressione gergale “inciucio”. È come se il fiume carsico del massimalismo italico fosse giunto in questa stagione politica nella sua fase di emersione e scorresse in superficie ricevendo interminabili flussi d’acqua piovana, fino a straripare e inondare terreni coltivati e sommergere zone abitate. Con gran quantità di danni annessi e connessi.
Dico questo perché non c’è alcuna novità nella foga antiparlamentare e populista per chi abbia un poco dimestichezza con la storia della cultura politica (e della politica, culturale o meno) italiana degli ultimi cento anni. A corrente alternata, come appunto un fiume carsico, la società italiana è stata attraversata da ondate di quel che oggi si chiama “antipolitica”, e che meglio definiremmo avversione alla mediazione, alla contrattazione, insomma al compromesso. La politica non è forse l’arte della mediazione? Sarà un modo di dire vecchio, ma non per questo senza più significato alcuno. Ad aggravare la situazione contribuisce quel che Sartori ha chiamato “novitismo”, altro male ricorrente nell’organismo politico e culturale italiano, che già abbiamo conosciuto, chi sui libri chi in prima persona. Stagioni comunque già vissute, e mai superate, nemmeno hegelianamente, ossia andando oltre ma assorbendo quanto di costruttivo e necessario vi era nel precedente che veniva oltrepassato.
È comprensibile che oggigiorno la parola compromesso evochi subito qualcosa di torbido, di illecito e votato al mero soddisfacimento di interessi egoistici, ristretti alla cerchia di coloro che quel compromesso stipulano. Lo scoperchiamento di tanto malaffare nella politica nazionale e locale, la degenerazione oligarchica di partiti che hanno avuto, e ancora hanno, mani in pasta in tanto, troppo denaro pubblico, la mancata o inadeguata risposta della pubblica amministrazione alle domande provenienti dalla cittadinanza: è evidente come tutto questo abbia contribuito a far buttare l’arte del compromesso nel cestino della protesta, assieme all’intrigo, all’accordo sottobanco, alla spartizione tra oligarchi di poltrone e prebende, e altri simili affari loschi. C’è però dell’altro, e come spesso accade quando si parla dell’Italia, è qualcosa che affonda le proprie radici nel passato, anche remoto. È un’antica attitudine all’intransigenza e al purismo che da consueto appannaggio di pochi diventa periodicamente, in determinate congiunture storiche, patrimonio di molti, che lo dilapidano nelle piazze, dentro le urne, e talora contro gli altri, propri connazionali e concittadini. Siamo un paese che non ha ancora sanato le ferite di una guerra civile che non è iniziata nel settembre 1943 e non è finita il 25 aprile del 1945. Temo che su questa mancata ricucitura nazionale il ceto intellettuale abbia avuto, e abbia tuttora, una grande e grave responsabilità. L’ha forse avuta anche la classe politica, ma non nell’immediato dopoguerra, almeno non nelle sue componenti maggiori e dirigenti, di governo e d’opposizione. In una certa misura deve aver pur pesato la presenza del maggior partito comunista occidentale, stalinista fino a che l’Urss riconobbe in Stalin il leader indiscusso, e poi filosovietico finché la storia lo consentì. Quanto meno hanno pesato l’ambiguità e la natura bicefala di un partito che predicava la fine di quella democrazia borghese e capitalistica nelle cui istituzioni parlamentari contemporaneamente operava. Eppure, compromesso vi fu, eccome; difficile, contestato, dagli avversari come dagli alleati, fin dentro ciascun partito. Eppure si capiva, all’epoca della Costituente e, almeno in parte, della Ricostruzione, che un minimo di condivisione sulle regole del gioco fondamentali ci dovesse essere, per poter ripartire ed edificare qualcosa di solido e duraturo, per dare risposte concrete ed efficaci ad una società che andava appunto ricucita, pacificata e rimessa in moto.
La democrazia è compromesso? Sì, a patto che la si intenda per come si è realizzata storicamente e ha funzionato a lungo in alcuni paesi europei e negli Stati Uniti d’America: ossia come democrazia liberale. Ecco, quando l’aggettivo davvero qualifica e distingue. Come faccio a garantire convivenza pacifica e relazioni costruttive e speranzose tra cittadini e Stato, cittadini e società, società e Stato, se non trovo un accordo? E come si trova l’accordo tra diversi, talora opposti, e quindi persino confliggenti, se non attraverso una paziente e laboriosa mediazione? Attraverso una decantazione che riduce il conflitto a competizione, leale e serena? Se due si mettono d’accordo, quel che ne viene fuori non è sempre cosca e spartizione di un bottino. Anzi, questa è piuttosto l’eccezione. A meno che non si voglia ora raccontare che ogni vita di coppia, ogni famiglia, è solo e soltanto un’accozzaglia, forzata e provvisoria, di interessi loschi e convenienze reciproche. Eppure lo si è detto, in altre stagioni “culturali”, periodicamente riemergenti.
Temo che ci sia uno spaccio illegittimo, in termini di logica e di etica, e che si scambi maliziosamente per dissenso quel che è solo “voluptas destruendi”. Non è certo dissenso quell’atteggiamento che rifiuta la presenza dell’altro, sia esso lo Stato o il partito avverso, e ne nega dignità e legittimità ad essere ed operare, oppure lo trasfigura in “infedele” e “instrumentum diaboli”. È semmai fanatismo sotto mentite spoglie.
Una ripulitura lessicale e concettuale, ecco di cosa avremmo bisogno. Un’operazione di risanamento culturale, di recupero di quei valori della “medietà”, della “giusta misura” e del “giusto mezzo” che dal pensiero greco classico giungono al liberalismo del XIX secolo e alla socialdemocrazia del XX. Un’operazione a cui nessuno ancora pare aver messo mano. A cominciare dagli addetti ai lavori: intellettuali, d’accademia e non, giornalisti, opinionisti (spesso ventriloqui di ciò che è moda e “fa tendenza”, perché così il talk show ti richiama e il tuo cachet è assicurato). Il fatto stesso di usare un termine così brutto e sgraziato come “inciucio” è un segno dei nostri tempi sotto diluvio mediatico. Consociativismo era almeno parola più elegante, mettiamola così. Una sorta di cupio dissolvi pare avvolgere e avvinghiare la mente di chi, per professione, è chiamato a mettere in scena la realtà, perché di questo si tratta con i media. Ma c’è modo e modo per farlo. Con ricerca di verosimiglianza e necessità, oppure con intento mistificatorio e strumentale. Non so nemmeno se oggidì si tratti di strumentalizzazione politica, od economica. Mi pare solo una grande deriva nichilistica, innescata anche, fra l’altro, dal triste narcisismo dei tele-visti e tele-ascoltati.
E viene da pensare con Amos Oz che dietro l’avversione al compromesso, dietro a quell’euforia irriflessa di chi si bea di dire, spesso urlare, i suoi “senza se e senza ma” non si celi né autentica ricerca di integrità morale né idealismo, e nemmeno determinazione o devozione a nobili cause. A meno che non si tratti sempre e solo dell’integrità e della irreprensibilità proprie negate agli Altri, sì, da scriversi con l’iniziale maiuscola, perché l’antipolitica di ieri e di oggi li ammucchia e li descrive come creature aliene, ora chiamate “disfattisti”, ora “esarchia”, ora “clerico-fascisti”, ora “casta”, a seconda delle stagioni della politica. Variazioni sopra uno stesso tema. Viene da pensare, e temere, che “il contrario di compromesso sia fanatismo, morte”, come fetida di morte pare talvolta l’aria respirata nelle nostre città dopo aver sfogliato il giornale e sorbito la propria dose quotidiana di televisione e internet. Una compiaciuta e satirica danza macabra allestita ogni mattina, ogni sera, in qualsiasi redazione e blog ai quattro angoli della penisola.
Il compromesso è ricerca dell’equilibrio, e la liberaldemocrazia è il regime dell’equilibrio, instabile, e perciò costantemente ricercato da quel mediatore e trasformatore in decisioni delle molteplici e diverse istanze sociali che si chiama “ceto politico”. A questo dovrebbe servire la dialettica tra maggioranza e opposizione, a favorire un movimento oscillatorio contenuto, come quello della bilancia che contempera spinte confliggenti e potenzialmente dirompenti. E qui, invece, si balla la taranta, e dal simpatico revival folklorico si rischia di scivolare nel tarantolismo, un fenomeno isterico convulsivo, con offuscamento della coscienza e turbe emotive. E allora sì che saremo prede ideali per i demagoghi di turno, domatori del fanatismo da essi stessi allevato, o semplicemente ospitato, perché formidabile viatico alla loro sete di dominio. Classe politica, composta da élites competitive e leali, disperatamente cercasi per dar vita a compromessi costituenti. Chi può, aiuti a farla crescere, e non semini zizzania. C’è n’è già a iosa, su terreni che dovrebbero invece essere ben seminati per dar frutti abbondanti, che scaccino la crisi.
Commenti (6)
Max Joseph
sara’, pero’ il voto oramai sa tanto di inutile orpello…
dal 2011 non abbiamo piu’ sovranita’ popolare e ci hanno pure scomodato 2 mesi fa per dare la nostra opinione su chi avrebbe dovuro governare il paese e quindi su un programma piuttosto che un altro.
Sara’ pure che l’Italia e’ spaccata cosi’ che dalle urne non sia uscita una chiara posizione ma stiamo attenti a farci abbagliare dai “pericoli” di un non governo. Quando nel 2011 c’era un governo pero’ non andava bene, era troppo “fragile” ed andava cambiato. E ci hanno commissariato con i conti in regola…
Sara’ tutto un caso, sara’… pero’ Monti si era dimesso ed e’ ancora li’, il PDL ha anticipato di 2-3 mesi per andare alle urne sfiduciando il governo dei “tecnici”… e siamo sicuri che volevano vincere o l’ideale era proprio una situazione di stallo come qeulla che stiamo vivendo? E i grillini in questo caso – forse inconsapevolmente – sarebbero gli “utili idioti”.
Di che compromessi parliamo dunque? La legge elettorale la si poteva cambiare prima e forse non saremmo stati in queste condizioni.
Vogliamo un altro anno di tencici e siamo contenti? Benissimo, ma la prossima volta non scomodatemi al voto promettendomi programmi fantasiosi che mai verranno applicati. Io, di passare nel gruppo di “utili idioti” non ne ho piu’ voglia..
Se invece si pensa che questa sia democrazia allora qua non ci siamo proprio, perch’e mi dovete spiegare cosa c’e’ di “governo del popolo” dal Novembre 2011, perche’ a me suona sempre piu’ di oligarchia.
cito…
In un ottimo libro dal titolo chiaro, Oligarchy, uscito per Cambridge University Press pochi mesi fa, Jeffrey A. Winters ci ricorda che la democrazia non elimina l’ oligarchia ma la incorpora. Questo lavoro di inclusione dura e ha successo fino a quando l’ economia cresce e produce ricchezza alla quale tutti, chi più e chi meno, possono sperare di accedere e, nei fatti, vi accedono anche. Ma quando questa condizione decade, allora la moltitudine comincia a proporre politiche che intaccano le ricchezze e le proprietà dei pochi, politiche fiscali redistributive. È a questo punto che la differenza tra oligarchia e democrazia si mostra con tutta la sua radicalità.
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le procedure democratiche stesse possono diventare un problema se il loro uso paventa esiti che possono mettere a repentaglio l’ interesse materiale dei pochi. In questo frangente si è buttata alle ortiche la logica del proceduralismo democratico, che i manuali scolastici ci insegnavano a non giudicare dal punto di vista degli esiti ma delle possibilità di determinarli con le nostre autonome forze. Ora invece è proprio l’ esito che viene invocato per neutralizzare la procedura. Un rovesciamento pericolosissimo poiché chi ci garantirà che le elezioni non verranno giudicate non opportune perché passibili di interrompere la stabilità di governo?
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Gli Stati si possono quindi distinguere tra quelli schiettamente oligarchici e quelli che hanno siglato un compromesso con la democrazia. Nell’ Atene classica quel compromesso riuscì per alcuni decenni, benché l’ alternativa oligarchica restasse sempre una concreta possibilità visto che le grandi famiglie non accettarono mai il governo dei molti. I governi rappresentativi sono riusciti a correggere questa condizione di endogena precarietà della democrazia traducendo in meccanismi costituzionali il rapporto con “i pochi”, dalla cui collocazione è sempre dipesa la stabilità dei sistemi politici. Consentire a questi di competere attraverso le elezioni è stato un modo per incorporarli – con il contributo dei molti che li eleggono, giudicano, controllano e limitano nel potere. Il successo delle democrazie rappresentative costituzionali ha corrisposto a due secoli e mezzo di espansione della società di mercato nelle due forme che conosciamo: il capitalismo industriale e, ora, quello finanziario. È stato un successo reso possibile da una condivisione generale degli oneri che ha consentito che il divario tra arricchimento dei pochi e dei molti non fosse fuori controllo. Oggi questo compromesso è rotto.
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E per molti ordinari cittadini è cominciato un duro periodo di impoverimento – che non è la stessa cosa della povertà. La durezza di questa crisi consiste nel fatto che per la prima volta cittadini che avevano conosciuto per due o tre generazioni un’ espansione dei diritti e delle possibilità, si trovano oggi di fronte alla perdita di status, a non potere aver progetti per il futuro
A me personalmente suona motlo familiare… ed e’ tratto da un articolo del 2011 sulla situazione Greca… c’e’ di che riflettere.
Saluti
pantera74
Carissimo Professore,
dov’e’ la giusta misura, la mediazione, quando un commesso parlamentare ( TITOLO III MEDIA ) guadagna molto piu’ di un ingegnere e migliaia di imprenditori capaci sono costretti al suicidio perche’ costretti a mantenere il primo ( e tutto il resto della Casta) ?
A me piu’ che fanatismo, mi sembra che si sia di fronte alla pratica omicida di teorie della razza eletta, basata non sulla genetica ma sull’anagrafe.
Oz parla di compromesso quando lo stato a cui appartiene non sa neppure cosa sia.
Molto meglio il ben piu’ noto Mago. Almeno mi faccio una risata insieme alle Principessine Miriam e Chiara .
Ossequi,
P.
IVANA
SEMPLICEMENTE ESAUSTIVO NELL’ESPRIMERE I CONCETTI…ORIGINALE E CREATIVO
NELL’ESPOSIZIONE DEI CONTENUTI.
E QUEL PIZZICO DI IRONIA …CHE RENDE LA LETTURA DAVVERO PIACEVOLE.
BRAVO BRESCHI.
marco
Le Sue argomentazioni sono abbastanza chiare, ma non percepiscono cosa ci sia dietro alle tante parole contro la parola compromesso che si vorrebbe usare tanto oggi nella politica italiana. Prima di tutto, il compromesso dovrebbe essere qualcosa che migliora le posizioni di ogni parte, dovrebbe essere un “compromesso al rialzo” e non un compromesso al “ribasso”, mentre la politica italiana negli ultimi anni ha utilizzato la parola compromesso per coprire in realtà un’altra parola “ricatto”. Il compromesso poi dovrebbe essere frutto della partecipazione di tutti e non solo di una parte politica che “pensa” di salvare se stessa e chi la vota, scaricando sui giovani i mali di decenni. Io questo non lo chiamo compromesso ma “si salvi chi può”. Lei fa benissimo a difendere la parola “compromesso” ma questo è strumentalizzato poi da chi la usa in maniera distorta..
Max Joseph
la fonte non sara’ il massimo dell’autorevolezza rispetto all’accademia della Crusca o ad un Treccani, ma riporto da Wikipedia:
In una disputa, il compromesso è il risultato di concessioni da entrambe le parti con lo scopo di trovare un terreno comune su cui concordare. Il compromesso porta ad appianare le differenze e viene raggiunto attraverso la mutua rettifica delle reciproche richieste, concedendo un po’ a ciascuna delle parti.
È possibile che le parti raggiungano il compromesso (o provino a farlo) trattando direttamente o tramite l’intervento (mediazione) di una terza parte (mediatore).
Il compromesso è possibile nelle dispute, ma può essere più difficile da raggiungere nei conflitti istituzionalizzati.
Alcuni valori culturali o determinati bisogni umani quali la propria identità come popolo o la autodeterminazione di una nazione potrebbero non essere soggette a compromesso (non compromissibili).
la nostra autodeterminazione di nazione “popolare” basata sul voto democratico non dovrebbe essere soggetta ad alcun compromesso… meno che mai un compromesso in cui una parte dei governanti (assieme al presidente della Repubblica che non viene votato dal popolo in Italia) decide chi prendera’ il posto in determinati ministeri…
Fa comodo per mantenere lo status quo ed applicare solo certe riforme se approvate da una determinata classe di dirigenti…
Certo l’alternativa fa paura per chi ha il sedere gia’ parato nel sistema, nel bene o nel male… meglio etichettarla come fanatismo o populismo.
Max Joseph
Visto che qui ci sono degli storici..
Rileggetevi questa parte di storia, forse emblematica per l’uso della parola “compromesso”:
http://it.wikipedia.org/wiki/Compromesso_storico
cosa potrebbe accadere questa volta? non e’ sopprimendo una voce e corrente popolare che si ferma il cosidetto populismo, anzi…
staremo a vedere come evolvera’ questa volta, perche’ anche Maria Antonietta suggeri’ un’alternativa al pane…
Buon primo Maggio…