di Alessandro Campi
Ci mancava, ad aumentare lo stato d’incertezza e il disincanto in cui vivono gli italiani, la rissa politico-televisiva del Venerdì Santo. Sentire prima il Presidente del Consiglio prendersela a reti unificate con l’opposizione (con i capi di quest’ultima che hanno subito risposto per le rime a colpi di video, tweet e post), vedere poi il papa e il crocifisso nel vuoto potente e irreale di Piazza San Pietro: quale abisso simbolico fra sfera secolare e sfera spirituale! Se la politica italiana voleva mandare un segnale di sostanzialmente inadeguatezza rispetto alla gravità della crisi in corso, beh, c’è riuscita alla grande. È questa la collaborazione tra forze politiche che si era promessa nell’interesse del Paese dopo l’invito in questa direzione rivolto dal Capo dello Stato?
C’è chi dice che Conte abbia perso la calma dopo le accuse di Salvini e della Meloni di aver svenduto l’Italia a interessi stranieri durante la riunione dell’Eurogruppo del 9 aprile. Ma è una spiegazione che non regge: nella comunicazione politica a quel livello non si fanno errori, si fanno scelte dettate, certo anche dall’emozione del momento, da soprattutto da logiche e convenienze precise. In questo caso, la necessità per Conte di alzare il tono dello scontro per togliersi da una serie d’impicci accumulatisi all’improvviso e riguardanti l’azione del suo governo in Europa, le serie divisioni che stanno affiorando nella sua maggioranza, la conduzione per molti versi problematica dell’emergenza e il suo stesso futuro politico.
Sul primo punto, Conte ha ragione quando ricorda l’oggettiva difficoltà per l’Italia della trattativa con gli alleati europei. E’ in corso una negoziazione tra Stati che non può certo essere vinta alzando la voce o facendo minacce a vuoto. Su questo la facile demagogia della destra – che per uno strano paradosso invoca oggi l’intervento risolutivo dell’Europa dopo averne sparlato per anni – non è di nessun aiuto e non è detto nemmeno che produca chissà quali consensi. L’Italia, è vero, non ha accettato al momento alcun aiuto-capestro, ma la sua richiesta di mutualizzazione del debito si è sinora scontrata con l’opposizione (difficile da superare) di Olanda e Germania. L’altro giorno all’Eurogruppo il ministro dell’economia Gualtieri ha avallato (presentandolo come un successo) un pacchetto di proposte che lo stesso Conte, il giorno dopo, ha invece definito insoddisfacente e ancora lontano dalle richieste (e necessità) dell’Italia. C’è qualcosa che non quadra e che non riguarda, evidentemente, i toni propagandistici o irresponsabili dell’opposizione, ma gli equilibri tra i partiti che sostengono il governo.
E siamo al secondo punto. L’eventuale ricorso al MES (anche solo per finanziare la spese sanitarie legate alla pandemia, come previsto dall’accordo finale dell’Eurogruppo) viene giudicato dai sovranisti un pericolo da evitare a tutti i costi: sarebbe il primo passo verso un commissariamento dell’Italia sul modello greco. Vero o falso che sia (ma ieri su questo giornale Romano Prodi ha spiegato bene come le misure europee di sostegno finanziario cui l’Italia potrà eventualmente attingere rappresenteranno comunque un peso enorme da sopportare), il problema è che anche il M5S la pensa allo stesso modo. Lo sa bene Conte, lo sa benissimo il Pd, il cui silenzio in queste ore si spiega con l’intenzione di non esasperare i rapporti tra alleati e i contrasti di visione tra il Presidente del Consiglio (che continua a chiedere obbligazioni emesse e garantite dall’Europa) e il suo ministro dell’economia (più vicino all’ortodossia economico-finanziaria che governa Bruxelles, forse soltanto più realista, e dunque più incline a considerare un buon compromesso il pacchetto d’interventi deciso dall’Ecofin).
Contrasti che si legano (ecco il terzo fattore) al modo con cui Conte sta gestendo la crisi in corso: a colpi di decreti e messaggi alla nazione, attraverso una sostanziale assunzione di “pieni poteri”. Se ciò non rappresenta (almeno per ora) un pericolo per la democrazia, considerato lo stato d’emergenza in cui ci si trova, è anche vero che una simile personalizzazione rischia egualmente di imprimere un vulnus al modo di funzionare di una repubblica parlamentare. E’ uno stile di governo che può essere accettato solo se funzionale a scelte politiche straordinarie come è straordinaria la situazione che le richiede e che siano, proprio per questo, largamente condivise e avallate da tutte le forze politiche, in una prospettiva autenticamente unitaria.
Il problema è che, oltre a mancare qualunque collaborazione tra governo e opposizione, ciò che sembrano latitare sono proprio le scelte in senso proprio politiche, a meno di non voler considerare tale la decisione di continuare a tenere bloccate tutte le attività commerciali e produttive e tutti gli italiani confinati nelle loro case sino al 3 maggio e forse anche dopo. L’argomento che una simile richiesta viene dal mondo scientifico e dagli esperti è anche un modo per ammettere che la politica, con l’obiettivo di difendere la salute dei cittadini prima d’ogni altra cosa, ha de facto rinunciato ad assumersi le responsabilità che dovrebbero le sue (ma la stessa cosa sta accadendo, se questa è una consolazione, anche in altri Paesi). Anche la costituzione, annunciata da Conte, di un’ennesima struttura tecnica chiamata ad occuparsi della ricostruzione dell’Italia – la task force guidata da Vittorio Colao, come se non bastassero la Protezione civile e i tanti commissari ed esperti che sono già stati ingaggiati per fronteggiare la crisi – sembra andare in questa direzione: se verranno prese decisioni dure e impopolari, anche sul piano economico, la responsabilità (o la colpa) non sarà del governo e dei ministri, ma degli esperti che dicono loro cosa fare.
A proposito di Colao, difficile sottrarsi ad un altro sospetto: che sia stato scelto, oltre che per le sue note capacità manageriali e per il suo prestigio internazionale, anche come una sorta di anti-Draghi. Laddove quest’ultimo è il vero fantasma che inquieta da settimane i sonni di Conte. E siamo al quarto punto. Per affrontare il dopo-coronavirus, cioè quella che viene continuamente presentata (e probabilmente lo è) la peggiore crisi economico-sociale dal secondo dopoguerra, difficilmente basterà un clima di solidarietà nazionale o un generico spirito di collaborazione. Potrebbe piuttosto servire una formula istituzionale e di governo funzionale a quest’obiettivo – ognuno la definisca come meglio crede – e dunque per davvero ‘unitaria’ sul piano politico-parlamentare e relativamente a chi sarà chiamato a guidarla.
C’è il rischio reale, nel prossimo futuro, di dover chiedere agli italiani pesanti sacrifici economici, specie se le nostre richieste all’Europa dovessero andare deluse o anche parzialmente frustrate. Ma non c’è solo un problema di finanze da reperire: a dir poco ingenti se la crisi economica sarà profonda e strutturale come alcuni pronosticano. Bisognerà anche decidere come e con quali strumenti intervenire per fronteggiare le situazioni di pesante disagio sociale che già si annunciano; quali settori economici sostenere, preferenzialmente o più di altri, per il fatto di considerarli strategici ai fini della ripresa; quali progetti d’innovazione attuare e quali investimenti strutturali mettere in campo per tentare di fare della crisi un’occasione reale di rinascita.
Parliamo di decisioni difficili, dirimenti e, per non farsi illusioni, assai costose. Potrà prenderle questo governo politicamente nato nel modo sghembo che sappiamo, al termine di una pazza estate? Potrà prenderle il solo Conte, magari grazie al prestigio da leader super partes e da “salvatore della patria” che nel frattempo si sarà conquistato, supportato non dai suoi ministri ma da una prestigiosa schiera di scienziati, consulenti e manager alle dirette dipendenze Palazzo Chigi? Se lo chiedono milioni di italiani, sempre più timorosi del loro futuro. Niente di più facile che se lo stia chiedendo, nel rispettoso silenzio che si è imposto, anche il Capo dello Stato.
*Editoriale apparso su “Il Messaggero” e “Il Mattino” del 12 aprile 2020
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