di Fabio Massimo Nicosia

Scriveva Mao Tse-Tung nel 1949: “Ma allora voi non volete sopprimere il potere dello Stato? Sì, noi vogliamo sopprimerlo, ma non ora; non possiamo ancora farlo. Perché? Perché l’imperialismo continua a esistere, perché la reazione interna continua a esistere, perché le classi continuano a esistere all’interno del paese. Il nostro compito attuale è quello di rafforzare l’apparato dello Stato popolare, e principalmente l’esercito popolare, la polizia popolare e la giustizia popolare, al fine di consolidare la difesa nazionale e di proteggere gli interessi del popolo”.

Analoghe considerazioni erano già state espresse da Stalin.

Il punto saliente, spesso trascurato, è quindi che tanto Stalin, quanto Mao, e ovviamente Lenin (vedi “Stato e rivoluzione”) non hanno mai abbandonato l’indicazione di Marx e di Engels, che lo Stato è una sovrastruttura che sarebbe caduta, o fatta cadere, al momento opportuno.

Marx non dedicò mai particolare attenzione a come sarebbe stata una società senza Stato, ma non lesinò critiche ai partiti socialisti o socialdemocratici dell’epoca (Lassalle) per il loro culto dello Stato (vedi la “Critica al programma di Gotha” e la “Critica al programma di Erfurt”), tant’è che c’è chi sostiene che, piuttosto che appoggiare i socialisti, Marx preferiva votare liberale o conservatore.

Ora, se Marx (ed Engels) erano sostenitori dell’estinzione dello Stato, che cosa li divide dagli anarchici, fautori dell’abbattimento dello Stato? Proprio questo, che per Marx e i marxisti bisogna prima prendere il potere, nella prospettiva del suo deperimento, mentre per gli anarchici della Prima internazionale il potere andava direttamente abbattuto. Lenin obiettò agli anarchici rivoluzionari di essere in contraddizione, perché, antiautoritari, essi propugnavano l’evento più autoritario tra quelli conosciuti, appunto una rivoluzione.

Da qui alcuni corollari, come il rifiuto degli anarchici di partecipare alle elezioni o in genere alla politica, in attesa del momento rivoluzionario vagheggiato.

Ora, ciò che ci chiediamo è se possa esistere una linea intermedia tra la strategia dei marxisti e quella degli anarchici.

Ad esempio, se noi consideriamo il passo di Mao sopra citato, non ci è difficile considerare pretestuose alcune sue considerazioni, tanto più che la linea Lenin-Stalin-Mao non si limita a posporre nel tempo il momento della caducazione dello Stato, ma propone addirittura il rafforzamento delle istituzioni coercitive in attesa di quel momento.

Nel mondo marxista, un’eccezione a questo modo di pensare fu incarnato da Tito, allorché introdusse nella ex Jugoslavia il principio dell’autogestione a tutti i livelli, sia pure sotto la direzione del partito unico.

E’ questa la strada da seguire, naturalmente conservando il pluripartitismo e le guarentigie liberali: arrivare al governo con un programma di chiaro dimagrimento dello stesso, ampliando i diritti civili nell’ottica della prassi antiproibizionista, decentrando le funzioni e l’economia, abbandonando della tradizione marxista non solo la ricerca di pretesti per rafforzare lo Stato, ma anche il progetto di nazionalizzazione dell’economia, parlando semmai di socializzazione e di promozione della cooperazione.

Ciò rappresenterebbe una sfida anche per il mondo anarchico, ancora troppo legato a inattuali e inutili miti rivoluzionari. Si tratterebbe, in altri termini, di una linea di governo “radicale”, intendendo il radicalismo come la linea immaginaria che conduce dal liberalismo all’anarchismo, senza rifiutare di sporcarsi le mani, dichiarandosi disponibili ad assumere le responsabilità di governo del caso.