di Andrea Colasuonno
A sentirli oggi, pressoché tutti i partiti, dall’estrema destra all’estrema sinistra, si propongono di cambiare l’assetto istituzionale dell’Unione Europea alle prossime elezioni di primavera, definendo quello attuale ingiusto, inefficiente e vessatorio per i milioni di cittadini che da esso sono governati. Fra questi ci sono i partiti che hanno governato negli ultimi anni, ed è fin troppo facile notare che proprio loro, ratificando i trattati, sono i responsabili dell’assetto che oggi criticano. Sono questi, a ben guardare, tutti partiti espressione di un’ideologia liberale: lo sono ovviamente quelli di destra, di centro-destra, ma anche quelli di centro-sinistra che, verso quella ideologia, da qualche decennio, non hanno fatto altro che convergere. Escludendo i partiti apertamente euroscettici che lottano per un indebolimento dell’“Unione” e degli istituti sovranazionali, mostrandosi decisi a voler buttar via il bambino con l’acqua sporca, gli unici che possono legittimamente farsi portatori di una battaglia che conduca oggi ad una “Unione” radicalmente diversa, ma pur sempre “Unione”, sono i partiti di Sinistra. Spieghiamo perché.
È noto che da quando l’Occidente è entrato in epoca moderna si è retto su due pilastri: l’impresa capitalistica e lo Stato-nazione. Sono stati questi entrambi tentativi, ottimamente riusciti, di istituzionalizzazione: con la prima si è istituzionalizzata la crescita economica tramite l’impresa privata, con l’altro si è istituzionalizzata politicamente la vita di un territorio e dei suoi abitanti. Su questi due punti fermi si è fondata l’ideologia liberista e per tutta la modernità cosiddetta classica, compensandosi a vicenda, i due pilastri hanno retto le società occidentali. Oggi invece viviamo secondo coordinate ultraliberiste. Ossia in un dato momento (si assumano come riferimento Regan e la Thatcher) si è presi a considerare un pilastro più importante dell’altro e così il capitale, divenuto per lo più finanziario e globale, ha finito per ridimensionare il potere sovrano dello Stato-nazione. La conseguenza è stata che gli Stati sono diventati soggetti in competizione fra loro sul mercato internazionale nell’attirare la maggior quantità di investimenti. E ciò, a sua volta, ha significato una corsa alla rimozione delle protezioni legali e sociali che avrebbero potuto essere da intoppo al padroneggiare del mercato, dunque agli investimenti: detto in altre parole, si è condotto uno smantellamento sistematico dello stato sociale.
Espressione puntuale di un tale andamento storico è l’UE nella sua attuale conformazione. È fin troppo evidente che oggi in Europa ci sia un primato dell’economia sulla politica, un primato non casuale e momentaneo, ma reso strutturale da vincoli e trattati (si pensi, su tutti, a quello di Maastricht e di Lisbona) firmati da governi di centro-destra e centro-sinistra, che hanno disegnato un’UE ultraliberista e autoritaria. La Merkel, gerente di fatto di questa Unione, non fa che chiedere che si “facciano i compiti a casa” rispettando i patti di stabilità, esigendo in sostanza che si privatizzi e si tagli sul welfare, rendendo dunque fattiva la deriva economicista dei soggetti politici esposta in via teorica sopra.
La catastrofe sociale di un siffatto meccanismo è ormai conclamata e dalle elezioni del maggio prossimo qualunque cittadino si aspetta un cambio di passo consistente per non dire epocale. Ad intercettarlo ci sono oggi i movimenti anti-euro, per lo più di destra, che però oltre a spingere in direzione di un sonoro arresto del cammino verso un’Europa federale quale sarebbe la fine della moneta unica, restano interni al paradigma ultraliberista che ci ha condotti fin qui. Poi ci sono i partiti moderati, anch’essi pronti a cambiare l’Europa, ma che difficilmente risulteranno credibili avendo essi stessi costruito tali architetture e tutt’oggi di esse succubi. Infine c’è la Sinistra (ripetiamo, non il centro-sinistra) che in uno scenario simile potrebbe giocare un ruolo cruciale proponendo ricette di radicale riforma, dunque raccogliendo il voto di rottura, ma senza perdere di vista l’obiettivo di un’Europa federale; avendo sempre combattuto l’Europa dell’“Austerità”; ma soprattutto essendo espressione di un’ideologia socialista endemicamente opposta a quella ultraliberista oggi egemone, e che a questa potrebbe essere alternativa non solo in tempi di crisi, ma in maniera strutturale. Tuttavia per farlo fra i due candidati di area alla presidenza della Commissione per le prossime elezioni, Schulz e Tsipras, la nostra Sinistra dovrebbe scegliere di appoggiare il secondo.
Il primo è il candidato del PSE, partito europeo che vede quali suoi membri tutti i partiti nazionali che hanno votato le politiche che oggi definiamo di “austerity”, salvo dichiarare poi di volerle smantellare. Schulz, cittadino tedesco, è anche membro, e direi non secondario, dell’Spd, partito di centro-sinistra nel quale il presidente del parlamento europeo spinge per una “grande coalizione” da farsi con il centro-destra della Merkel, così da poter governare dopo lo scenario incerto restituito dalle elezioni tedesche di due mesi fa. Schulz insomma dice di voler andar oltre le politiche di rigore volute dalla Merkel a livello europeo e intanto governare assieme alla Merkel in Germania, una posizione non proprio invidiabile per chi dovrebbe rivoluzionare l’UE. Il secondo invece è il candidato della GUE, il partito europeo che raccoglie i partiti di sinistra, cosiddetta, estrema di tutta Europa. Partiti fin dall’inizio contrari all’austerità fra cui c’è Syriza, il partito greco capeggiato dallo stesso Tsipras che alle elezioni del 2012 è risultato il secondo partito, superando anche il più moderato Pasok, grazie alle preferenze raccolte tramite una campagna elettorale tutta orientata al rigetto del “memorandum” con cui la Troika ha cercato di gestire il default della Grecia.
Hölderlin, nel famoso aforisma, diceva che “dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva”, le prossime elezioni europee, visto il pericolo in cui siamo, saranno cruciali per capire se potrebbe esserci una salvezza possibile. La Sinistra italiana appoggiando Tsipras appoggerebbe allora un rappresentante mai compromesso con trattati asfissianti e politiche di austerità, dotato invece di tutta l’autorità morale necessaria ad opporvisi; appoggerebbe un greco che in quanto tale per primo e più crudamente ha sperimentato gli effetti dell’applicazione inflessibile della dottrina economica europea, divenendo un’avanguardia nel modo di combatterla; appoggerebbe un nativo dell’Europa mediterranea, in cui anche l’Italia si ritrova, un cittadino dei PIGS, che simbolicamente ed effettivamente sarebbe espressione del diritto del Sud Europa ad essere ascoltato in fase decisionale, insidiando l’asse continentale franco-tedesco; appoggerebbe un candidato che grazie al suo prestigio attirerebbe consensi ben al di là di quelli assicurati dai partiti nazionali che lo sostengono apertamente seducendo gli “indignati” alla sua sinistra e alla sua destra; infine proverebbe a cogliere l’attimo, nell’accezione holderliniana dell’espressione, tirando fuori l’Europa dal ristagno ultraliberista in cui è finita, avviando la costruzione di un’UE, per la prima volta, fieramente e indubitabilmente riformista, in cui poter parlare di uguaglianza senza sentirsi inadeguati e senza dover necessariamente mostrasi reverenziali verso il mercato, come fatto dalla sinistra negli ultimi decenni. La contesa con Tsipras sarà allora il fronteggiarsi non più di due ricette per la gestione di uno stesso modello, ma il fronteggiarsi di due modelli opposti, l’uno sociale e l’altro liberale, in cui il primo prova scalfire l’egemonia del secondo in evidente difficoltà. Se non è un’occasione da cogliere questa, allora non ce ne saranno molte altre.
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