di Alessandro Campi
Il segnale forse più vistoso della crisi in cui attualmente si dibatte il Popolo della libertà è rappresentato dalle attenzioni che vengono riservate in quel partito a Matteo Renzi, dunque a quello che formalmente è un avversario. Non c’è dichiarazione di un qualche dirigente del Pdl nella quale non vengano sempre spese parole di grande ammirazione per il Sindaco di Firenze. Senza contare la simpatia dichiarata che nei suoi confronti provano lo stesso Berlusconi e non pochi elettori di quest’ultimo.
Secondo alcuni si tratta di un interesse strumentale e di comodo, di un’attenzione che lascia immaginare l’esistenza di una sottile e perfida strategia. Ci sarebbe infatti una trappola politica, tanto cinica quanto letale, pronta a scattare il giorno in cui si voterà per le primarie del Partito democratico: in quell’occasione, secondo uno scenario alla moda, legioni di simpatizzanti del centrodestra si recheranno alle urne, sotto mentite spoglie, per condizionare a favore di Renzi l’esito della consultazione.
Non si capisce, in verità, in cosa consista la scaltrezza di un simile scenario, ovvero la sua utilità dal punto di vista berlusconiano. Senza più Bersani cui dare del comunista durante la campagna elettorale, con un Renzi che potrebbe seriamente attrarre, se candidato alla guida del Paese, quote consistenti di elettorato moderato, appoggiare il rottamatore alle primarie sembrerebbe per il centrodestra, più che una furbata pensata a tavolino, un atto di autolesionismo. Senza contare che la candidatura di Renzi costringerebbe il Cavaliere a farsi definitivamente da parte, tanto risulterebbe politicamente improponibile, e perdente per il secondo, uno scontro tra di loro.
Viene allora il sospetto che siano i vertici del Partito democratico a propalare questo scenario come verosimile. I dirigenti della vecchia guardia che non amano Renzi – da Massimo D’Alema a Franco Marini, non parliamo poi di Rosy Bindi – da settimane non fanno altro che accusarlo di essere una quinta colonna della destra, un liberista conservatore mascherato da liberal progressista, ovvero un berlusconiano per formazione e convincimenti. Di recente gli si è rivolta quella che a sinistra continua ad essere la più infamante (e ovviamente la meno provabile) delle accuse: di ricevere finanziamenti segreti da americani e israeliani. Niente di più facile – si sostiene con malizia – che uno così venga votato in massa, con l’unico e preciso obiettivo di destabilizzare il Pd, dagli elettori del centrodestra. Non siamo più nemmeno nella propaganda: ma nella paranoia travestita da lotta politica. Tale è, evidentemente, la paura che Renzi suscita nell’oligarchia del suo partito.
Ciò non toglie che Renzi trovi molti estimatori a destra e che ciò rappresenti, per molti versi, una stranezza politica. Dal momento che una parte politica non può fare il tifo per il leader potenziale della parte concorrente, a meno di un impazzimento collettivo, bisogna allora chiedersi per quali ragioni si sta producendo una simile stranezza e cosa la giustifica.
Nel caso di Berlusconi, il suo apprezzamento per il Sindaco di Firenze esprime con ogni evidenza un rimpianto e una nostalgia. La vitalità di quest’ultimo, la sua determinazione, il suo parlare franco e schietto, la sua capacità di spiazzare gli avversari e di attrarre consensi trasversali, il suo chiedere a gran voce un rinnovamento radicale della classe politica (a partire dal suo stesso campo), persino la sua ribalderia – sono tutti elementi che in effetti ricordano il Cavaliere baldanzoso e spregiudicato di vent’anni fa, quando quest’ultimo fece il suo trionfale ingresso nell’agone politico. Il Berlusconi odierno è al contrario un leader stanco e indeciso, incapace ormai di guizzi (anche se tutti non fanno altro che chiedergli colpi di teatro e alzate d’ingegno), che non può più permettersi bagni di folla. È comprensibile che si rispecchi, con qualche dispiacere, nel suo gagliardo avversario.
L’attenzione degli elettori di centrodestra per Renzi esprime invece un misto di delusione, rabbia e disorientamento. È difficile in effetti, per chi lo abbia votato e sostenuto, accettare un destino amaro e beffardo come quello del Pdl: appena tre anni va trionfante alle urne insieme alla Lega, oggi travolto dagli scandali e dal discredito e senza più nessuno che voglia allearsi con esso. Un partito che si è dissipato in lotte intestine (mortale fu quella tra Berlusconi e Fini, da cui iniziò il suo effettivo declino) e che per molti suoi esponenti, al centro come in periferia, è stato solo uno strumento per fare affari e per garantirsi denari e carriere. Un partito rimasto immobile mentre tutto intorno a se cambiava (e crollava). Un partito guidato apparentemente con mano fermo ma in realtà lasciato a se stesso: privo di dibattito interno e di idee con le quali proporsi ai suoi elettori, che non caso si trova oggi a discutere della propria liquidazione coatta.
Anche nel Pd si litiga e ci si divide, ma un conto sono le lacerazioni che nascono dallo scontro politico-ideologico, un conto è la resa dei conti che ci sta consumando nel Pdl, all’insegna di un sempre più drammatico “si salvi chi può”. Così come un conto è selezionare i propri candidati e rappresentanti nelle istituzioni affidandosi alle decisioni insindacabili di pochi (e si è visto quanti famigli, cortigiane e affaristi abbiano fatto carriera nel Pdl), un conto è utilizzare uno strumento, per quanto imperfetto, come le primarie, che appunto consente ad un giovane come Renzi – e ai tanti come lui – di mettersi in gioco per le loro effettive qualità politiche. Come non comprendere quegli elettori di centrodestra che hanno scelto di rifugiarsi nell’astensionismo o che appunto guardano con curiosità e simpatia l’avventura di Renzi?
Quanto ai dirigenti e vertici del Pdl, l’attenzione con cui seguono la scalata al potere di Renzi esprime essenzialmente frustrazione. Ognuno di essi, almeno i più politicamente intraprendenti, vorrebbero poter fare come lui: alzarsi dal fondo della sala, puntare il dito contro Berlusconi e chiedergli di farsi da parte in nome del rinnovamento, candidandosi magari a prenderne il posto. Ma nessuno di essi può farlo: per mancanza di nerbo e coraggio o perché legati al Cavaliere da un rapporto che va oltre la lealtà politica o il senso di riconoscenza per sconfinare nel vassallaggio e nella subordinazione. Sono molti quelli che nel Pdl vorrebbero oggi le primarie (e dunque un potenziale Renzi di centrodestra): creerebbero entusiasmo tra sostenitori e militanti e darebbero legittimità democratica e dunque forza politica autonoma a chi dovesse vincerle. Ma per come funziona questo sgangherato partito solo Berlusconi, con un atto di magnanimità, può eventualmente concederle. E guai, naturalmente, a immaginare di poter correre contro di lui o al suo posto.
Renzi dunque non piace alla destra perché è di destra. È solo lo specchio nel quale quest’ultima riflette i suoi fallimenti e la sua attuale impotenza.