di Danilo Breschi
Che bello quando un libro di analisi storica comparata stimola a riflettere meglio sul proprio tempo, con serenità d’animo e cognizione di causa! Questo viene da esclamare leggendo “Il populismo” (Carocci, 2013) dello storico Loris Zanatta, che insegna Storia e istituzioni e Relazioni internazionali dell’America Latina presso l’Università di Bologna. Primo pregio di questo libro è di non essere il solito instant book che sfrutta la popolarità di cui un argomento gode in un dato momento. Parlando di “populismo”, la popolarità è intrinseca all’argomento stesso. Il libro è infatti il frutto di uno studio ventennale dei fenomeni populistici, con precedenti ricerche condotte dall’autore sia sull’America latina sia sull’Europa mediterranea. Anzi “latina”, termine che Loris Zanatta predilige come chiave di ricerca.
Con “civiltà latina”, o “mondo latino”, egli intende uno “spazio storico”, assai eterogeneo e mutevole nelle varie epoche e da luogo a luogo, che comunque presenta un comun denominatore, un humus “dove fiorisce più rigogliosa la pianta populista”. Esperienze analoghe vissute tra America latina ed Europa mediterranea sono, ad esempio, la cristianità cattolica e l’essere rimasti periferici rispetto ai processi storici e culturali che hanno favorito la modernizzazione occidentale, dalla Riforma all’Illuminismo, dalla rivoluzione industriale a quella costituzionale. Ciò spiegherebbe come mai nei paesi anglosassoni il populismo sia fenomeno sì ricorrente ma non endemico né destabilizzante, semmai corroborante. Si tratterebbe insomma di una sorta di “antidoto” alle inevitabili disfunzioni di ogni sistema democratico costituzionale, ma mai una “visione alternativa del mondo”.
Zanatta legge il populismo come sotterranea mentalità neotribale che nei momenti di crisi prodotti dai processi di modernizzazione, quali industrializzazione, urbanizzazione e secolarizzazione, riemerge e vede una via di uscita o di salvezza nel richiamo al popolo inteso come comunità indivisa e virtuosa, rigeneratrice. Oscilla tra un passato mitizzato e un futuro di riscatto, e, a seconda dell’intensità di quel richiamo, può convivere, pur faticosamente, con gli istituti della democrazia rappresentativa oppure degenerare in totalitarismo. Un fenomeno metamorfico, ombra della democrazia.
Quale, secondo Zanatta, il “nucleo ideale”, ossia la visione politica di fondo, essenziale, del populismo? Direi l’idea di un popolo “inteso come comunità organica”, da cui consegue “la pulsione a integrare il popolo nella società sacrificando alla sua omogeneità l’individuo”. In sé, il populismo non è fenomeno antimoderno, “piuttosto rappresenta un peculiare canale di adattamento della tradizione alla modernità, e viceversa”. Più precisamente, prosegue Zanatta, si tratterebbe della “rielaborazione di un immaginario antico, quello organico, volta a farne lo strumento sia politico sia ideologico per affrontare il mondo moderno”. Resta comunque l’impressione forte e chiara che il populismo sia un tentativo di stare dentro la modernità con la pretesa di rimanerne totalmente impermeabili, come estranei, stranieri in patria. Di qui quel retrogusto di impoliticità che lascia sempre a chiunque si accosti a tale fenomeno e provi ad osservarlo con attenzione seria e spassionata. È evidente che il populismo non ami il pluralismo e releghi in secondo piano, consideri anzi sostanzialmente superflue e puramente decorative, le regole e le procedure che contraddistinguono il costituzionalismo liberal-democratico. Il “popolo” è una comunità indivisa, che parla con una sola voce, che poi è sempre e solo quella di colui che riesce in quel dato momento a farsene “portavoce”, anche se sarebbe intellettualmente più onesto chiamarlo col suo vero nome, ossia un “leader”, e anche qualcosa di più di colui che letteralmente si limita a “condurre”: semmai ambisce a incarnare il ruolo di una guida e di un pastore, acclamato e indiscusso perché “vox populi, vox dei“. E se dice che è il popolo che lo vuole, il suo volere di leader risulta automaticamente indiscutibile, immune da ogni contestazione.
Ebbene tale “Popolo”, con l’iniziale maiuscola, viene giudicato come aver sempre e comunque “priorità assoluta su ogni altro potere”. Questo – e lo si intuisce subito con estrema facilità – può diventare agile escamotage per aggirare i limiti posti dalla Costituzione e avallare sistematici strappi alla regola, giustificati sempre e comunque “in nome del popolo sovrano”. D’altronde, Mussolini e Hitler non dovettero la loro ascesa alla democrazia? Pur in contesti istituzionali diversi, furono i meccanismi della rappresentanza e il dogma del consenso popolare preso alla lettera a favorire i due totalitarismi “di destra” (il bolscevismo, invece, stroncò sul nascere quella democrazia che, con l’elezione dell’Assemblea Costituente, ne aveva sancito un relativo ridimensionamento in termini di suffragi e una subalternità rispetto ai socialrivoluzionari, larga maggioranza tra le masse contadine). A dimostrazione che una democrazia non liberale, che non preveda cioè checks and balances a difesa della divisione e dell’equilibrio tra i vari poteri all’interno di uno Stato, può facilmente scivolare e sprofondare da capo a piedi in forme di dittatura plebiscitaria. Solo con tale sistema di controllo e bilanciamento reciproco si può tentare sul piano istituzionale di evitare l’assolutismo e salvaguardare le libertà dei cittadini.
Detto ciò possiamo concludere con Zanatta che esiste un populismo che fa bene e uno che fa male. Storicamente, il primo caso emblematico è quello degli Stati Uniti, dove l’esperienza storica del populismo ha “funzionato da ‘anticorpo’ contro la sclerosi del sistema, o da valvola di sicurezza in momenti di crisi, in luogo di minarne le fondamenta”. Solidità strutturale e fiducia popolare nel sistema costituzionale della democrazia statunitense spiegano molto del perché di questo effetto corroborante del fenomeno populista al di là dell’Atlantico. Ma soprattutto ce lo spiega “il radicamento in quella società, già nella sua fase formativa, di una diffusa identità civica individualista, dunque meno sensibile di quella del mondo latino alle sollecitazioni più estreme dell’immaginario caro al populismo”. Il secondo caso, quello di un populismo che fa male, lo si rinviene nella Russia ottocentesca. Da lì sono emersi sia correnti socialiste rivoluzionarie, “votate a ricostituire la comunità del popolo eliminando le classi sociali”, sia correnti tradizionaliste di ispirazione religiosa, anch’esse connotate da sogni di restaurazione comunitarista mortifere per l’individuo e la sua autonomia. Il male maggiore di tale forma di populismo è consistito nell’essere alimentato da élites tanto aliene e ignare nei confronti delle reali esperienze di vita di un popolo del tutto idealizzato quanto irritate e indignate per l’incomprensione che da questo stesso popolo mai davvero conosciuto esse ricevevano a più riprese. Così distanti e incompresi, così ostinati e pervicaci nella loro predicazione rivoluzionaria. In Russia nichilismo e terrorismo non furono pertanto conseguenze del tutto casuali.
Fenomeno intermittente, il populismo è una febbre salutare solo in corpi di sana e robusta costituzione, che da questo passeggero malessere comprendono che avevano nell’ultimo periodo esagerato e deviato rispetto ad una corretta e benefica condotta. In corpi cagionevoli e di debole costituzione quella febbre sale e sale fino a far girare la testa all’intero sistema decisionale e produttivo, col che si rischiano sbandamenti pericolosi e degenerazioni verso patologie più gravi. A buon intenditor poche parole.
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