di Alessandro Campi

IMG_1341La buona coscienza, l’amor proprio e il senso di giustizia dell’elettore democratico domenica sera saranno salvi, in Francia e nel resto del mondo. Se i sondaggi dicono il vero (ma spesso dicono il falso, cioè quello che una minoranza teme e una maggioranza desidera), Macron vincerà e s’insedierà all’Eliseo.

Ma non avrà sconfitto il populismo, come si dirà trionfalmente. Avrà solo battuto Marine Le Pen: una populista, la parte che non esaurisce storicamente il tutto. Il sospiro di sollievo sarà dunque momentaneo, per quanto certamente salutare e rigenerante dopo l’accumulo di paure di questi mesi.

Il fatto è che il problema si riproporrà. Non solo a settembre, quando si voterà in Germania. O la primavera del prossimo anno, quando si voterà in Italia e già si trema all’idea che possano vincere Grillo e i suoi. Il problema si riproporrà negli anni (e forse decenni) a venire, perché quello che sta accadendo nelle grandi democrazie europee non è un’eruzione improvvisa di miasmi velenosi destinati a disperdersi con un forte vento.

L’impressione è invece che si sia alle prese con cambiamenti profondi e strutturali, non previsti o sottovalutati dalla scienza politica o dalla sociologia, insomma da quelli che studiano per professione, ma semmai anticipata e prevista da qualche letterato o cineasta visionario.

Facciamo degli esempi. Di chi vagheggia la democrazia diretta attraverso la tastiera di un computer si può anche sorridere, ma ciò non toglie che la democrazia parlamentare-rappresentativa classica sia in grave affanno. Chi crede più che i Parlamenti eletti siano i Iuoghi ove si compongono armonicamente gli interessi sociali o dove gli orientamenti ideali pubblicamente s’esprimono? Lo si può scrivere nei manuali scolastici, ma è ormai politica immaginaria.

I partiti, come organizzazioni sociali e sistemi di credenze collettive, dal canto loro sono in crisi o stanno addirittura sparendo, senza lasciare alcun rimpianto nelle masse che un tempo essi irreggimentavamo. E stanno sparendo per lasciare il posto a figure come appunto Macron: il salvatore dei valori repubblicani, così lo saluteremo, ma del quale si deve anche dire – come ha fatto il Papa non piegandosi al giubilo universale verso questo giovane banchiere – che non si capisce da dove esattamente sia venuto fuori, da quale dialettica sociale, da quale gioco delle forze. E cosa abbia esattamente in testa: l’Europa, certo, e dopo? Nelle democrazie odierne, sempre più disarticolate, disfunzionali e delegittimate, funziona ormai così: dall’esterno irrompono energie solitarie e irregolari che non rimandano ad alcuna tradizione culturale conosciuta, prive di un progetto politico definito, forti soprattutto della loro capacità a utilizzare e sfruttare i media e le psicosi degli elettori, sostenute da poteri non sempre chiari. In America ha vinto Trump, in Francia vincerà Macron. Ma dov’è la differenza in termini strutturali, al netto cioè delle nostre insignificanti simpatie personali?

Ancora. Il dibattito, il confronto civile tra le opinioni, il ruolo dirimente dell’opinione pubblica: abbiamo sempre considerato questi elementi vitali per la vita di ogni democrazia. Ma il progresso tecnico nella comunicazione sembra aver relegato tutto ciò nel campo della retorica edificante. Le giovani generazioni non leggono più: chattano, compulsano, scorrono veloci sui loro schermi. L’informazione, che spesso coincide con la manipolazione scientifica della medesima, è divenuta frettolosa e nevrotica. Si fa propaganda a colpi di cinguettii, niente più discorsi politicamente argomentati. Si diventa leader, o si viene pubblicamente massacrati, per le proprie vicende private, non per le proprie idee. Quanto resisterà Macron alla voracità distruttrice del sistema mediatico che oggi l’esalta? Se ciò è vero, il populismo – nel senso della demagogia, dell’eccitazione delle masse, del complottismo dilagante, della ricerca del nuovo per il nuovo – non è una febbre momentanea, ma una condizione culturale che può dirsi quasi permanente.

Le migrazioni di popoli, infine, in gran parte orientate in direzione dell’Europa e che noi trattiamo congiunturalmente in una chiave d’emergenza umanitaria e di doveroso aiuto al prossimo che soffre, sono a loro volta un moto che non si riesce a fermare. Con le alterazioni demografiche e gli inevitabili conflitti identitari che produrranno. Oggi cavalcate dall’impresentabile Marine, ma altri più presentabili verranno dopo di lei, a sostenere una battaglia che ha – vogliamo dirlo? – buone ragioni per essere combattuta. E che certo non potrà essere neutralizzata invocando un sovrappiù di spirito europeo o un generico senso di appartenenza universalistica. Qualcuno ha applaudito, trovandola molto moderna e civile, all’idea di Macron che non debba più parlarsi di cultura francese ma, in omaggio al pluralismo delle appartenenze, di culture in Francia. Ma se è così che si pensa di lenire il disorientamento delle masse o di appagare il loro bisogno di riconoscimento sociale, è chiaro che i populisti sovranisti, sconfitti oggi nelle urne da quello che appare una forma di populismo a sfondo cosmopolitico non meno insopportabile del primo, torneranno presto a farsi sentire.

D’altronde, per chiudere, la secessione culturale e spirituale delle classi dirigenti o élite, internazionalizzatesi sul piano dei comportanti e dei linguaggi, divenute per ciò aliene alle culture nazionali che dovrebbero rappresentare, non è un’invenzione recente dei sovranisti. Ma una frattura sociologica osservata già da anni e che tende ad accentuarsi, facendo crescere il risentimento e l’odio sociale degli elettori, che infatti si spostano da una parte dall’altra, ora sono di estrema destra, domani di estrema sinistra, seguendo solo l’istinto, la generica rabbia che hanno contro il potere (ogni potere) e l’ansia di cambiamento fine a sé stesso che li divora.

Il voto francese è stato interessante, per come si è sviluppata la campagna elettorale, perché queste tendenze sono emerse tutte molto chiare, sino a determinare lo scontro anomalo (comunque finisca) tra quelle che sono, a ben vedere, le due facce dell’antipolitica odierna: quella aggressiva e scostumata della Le Pen, quella educata, rassicurante, culturalmente à la page ma altrettanto vuota del suo giovane antagonista. Domenica non vincerà la buona politica contro il populismo cattivo (o l’Europa civile contro il nazionalismo becero). Vincerà comunque il disorientamento degli elettori, il trasversalismo delle credenze, il potere solitario mediaticamente costruito, l’avventurismo post-democratico. Vincerà il male minore, sperando che non diventi esso quello peggiore.

 

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