di Federico Donelli

Ahmet DavutoğluNell’ultimo decennio la politica estera turca ha subito una drastica riformulazione sia negli obiettivi sia nelle strategie atte a raggiungerli. Tra quest’ultime ruolo primario è spettato all’incremento del soft power diventato sempre più una prerogativa dell’attivismo internazionale voluto e perseguito dai governi guidati dall’attuale Primo Ministro Recep Tayyip Erdoğan.

A livello mediatico hanno trovato spazio le molte iniziative diplomatiche promosse dal governo turco che, sotto l’egida del Ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu vero e proprio demiurgo del nuovo corso di politica estera, si è impegnato nello sviluppo di un dialogo comune tra Stati, considerandolo come efficace disinnesco di possibile tensioni regionali. Meno conosciuto dell’attuale dinamismo turco è il costante richiamo all’elemento culturale, il quale viene sfruttato come canale privilegiato di avvicinamento o, in alcuni casi, riavvicinamento alle popolazioni delle regioni vicine dal Medio Oriente all’Asia centrale passando per i Balcani e il Caucaso. La penetrazione culturale della Turchia si fonda sul recupero di radici comuni tra cui la lingua e il condiviso passato ottomano. Su queste basi hanno origine iniziative quali i corsi di lingua turca nelle scuole pubbliche degli stati interessati e il recupero attraverso costosi piani di ristrutturazione dei siti archeologici patrimonio dell’età imperiale. La capacità mostrata negli ultimi anni dalla Turchia di fare leva sull’elemento culturale nella costruzione dei rapporti con i paesi vicini è facilmente riscontrabile nella graduale erosione di antichi cliché e stereotipi costruiti ad hoc dai singoli nazionalismi; un percorso che ha portato al simultaneo sviluppo di una crescente fiducia nei confronti di Ankara, dietro la quale si cela un’autentica ammirazione corroborata dalle ottime performance economiche. A questi caratteri, utili per creare un condiviso terreno di incontro, si aggiunge spesso l’elemento religioso che la Turchia utilizza in maniera molto equilibrata e meticolosa, consapevole che un suo errato o eccessivo utilizzo comporterebbe un inevitabile aumento delle tensioni settarie interne a zone già attraversate da profonde linee di frattura confessionale.

La necessità di ridurre o quanto meno temperare il ricorso alla dimensione religiosa ha spinto Ankara a sfruttare la dirompente popolarità acquisita negli ultimi anni dal settore cinematografico e più precisamente dalle soap opera. A seguito della privatizzazione dei canali televisivi dei primi anni Novanta, si è assistito al proliferare delle serie TV di produzione locale, esito nonché riflesso del particolare periodo vissuto dall’intera società turca: una fase di profondi cambiamenti negli usi e nei costumi, nello stile di vita dei singoli individui oltre a un generale fermento culturale. Il grande successo ottenuto dalle telenovela turche sui canali nazionali unito al nuovo attivismo ricercato in politica estera dai governi Giustizia e Sviluppo (AKP) convinse i produttori ad aprirsi al mercato estero esportando i format e le serie TV a partire dal 2005. Nel giro di un paio di anni ad essere esportati furono circa un’ottantina di programmi televisivi prodotti in Turchia, per lo più destinati al mercato mediorientale, ai Balcani e alle repubbliche turcofone dell’Asia centrale. Le trasmissioni maggiormente richieste furono proprio le soap opera e le fiction, oltre cento nel solo 2011, raggiungendo una pubblico di circa 300 milioni di spettatori in venti paesi diversi.

Segreto del successo delle fiction turche deriva dalle tematiche trattate, molte delle quali considerate tuttora “tabù” nel mondo musulmano, come per esempio la completa emancipazione femminile motivo centrale in una delle prime e più famose serie, “Gümüfl” (“Argento”), trasmessa nel mondo arabo sotto il nome di “Noor” (“Giovane”). Il rapido successo di Noor lo si deve anche ad una precisa scelta fatta dagli stessi produttori turchi in accordo con l’emittente pan-araba MBC (Middle East Broadcasting Company), i quali hanno scelto di doppiare i dialoghi non in arabo classico, come fatto in precedenza con le serie latino-americane, ma utilizzando un dialetto colloquiale siriano facilmente comprensibile dalla maggior parte dei telespettatori mediorientali.

Il contenuto delle fiction turche segue un preciso e comune filo conduttore, cioè la difficile e a tratti drammatica convivenza tra una concezione del mondo tradizionale e una di tipo moderno, ossia la plurisecolare tensione tra Islam e Occidente. In tale quadro l’immagine che la Turchia proietta di sé è di un paese nel quale anime e stili di vita differenti si incontrano, raggiungendo un equilibrio, seppur precario, nel quale coesistere attraverso la condivisione delle stesse difficoltà che la vita quotidiana presenta ai protagonisti. Telenovela come “Aşk-ı Memnu” (“Amore proibito”) o “Yaprak Dökümü” (“Le foglie che cadono”) hanno avuto il merito di parlare apertamente dei conflitti intergenerazionali interni ai singoli nuclei familiari, conflitti riflettono quelli presenti nell’intero universo musulmano. Non ci sono latitudini, distinzioni settarie o etniche, nessun distinguo di fronte a veri e propri melodrammi che nessuno prima degli sceneggiati turchi aveva voluto e saputo raccontare in maniera così lucida ed efficace, senza inibizioni o censure di sorta. Questi aspetti hanno originato un intimo dialogo con gli spettatori i quali si rivedono nei personaggi, diventati vere e proprie icone collettive acquisendo da essi anche precisi registri e modelli di comportamento da imitare e, con il tempo, interiorizzare. Una informale interazione dalla quale scaturisce una sorta di empatia “virtuale” tra Turchia e popolazioni delle regioni circostanti, i cui effetti sono visibili anche a livello politico, dove la diffusione delle soap opera è servita a temperare antichi e sedimentati rancori come per esempio nel caso dei Balcani. A partire dal 2010 le fiction turche hanno iniziato ad essere trasmesse in diversi stati balcanici tra cui Bosnia, Albania, Macedonia e – persino – Grecia risultando essere una utile componente nei processi di normalizzazione delle relazioni intergovernative. Le serie TV turche, che in breve tempo hanno soppiantato quelle latino-americane, sono servite per riabilitare agli occhi delle masse i molti legami storico culturali oltre che linguistici, per anni stigmatizzati dalle intellighenzie nazionali. Nei Balcani come altrove il successo è stato pressoché unanime per tutte le serie turche, tuttavia una menzione particolare in termini di pubblico occorre farla per la fiction “Muhteşem Yüzyıl” (“Il secolo magnifico”) centrata sulla figura del leggendario sultano Süleiman “il Magnifico” (1520-1566). Come già accaduto nella stessa Turchia la fiction ha innescato un vero e proprio boom dell’interesse intorno al passato ottomano con un drastico picco delle vendite sia di libri sia delle prenotazioni per le visite guidate ai siti archeologici. Un successo per nulla mitigato dalle molte critiche ricevute per il carattere “fantastorico” delle trame tra cui quelle dello stesso Erdoğan il quale l’ha definita «uno sforzo per mostrare ai giovani la nostra storia in una luce negativa».

Il “soap” power turco negli ultimi mesi ha assunto una rilevanza anche maggiore rispetto al passato a seguito dell’ondata di impopolarità che ha colpito Erdoğan e il proprio governo a livello internazionale; infatti, gli scandali e le accuse di corruzione hanno in parte scalfito l’immagine di “champion of democray” costruita dal governo turco negli ultimi anni. In tale scenario il ruolo delle fiction può risultare determinante nella ricostruzione dell’immagine di un paese che, nonostante l’oggettivo deficit democratico accentuatosi negli ultimi mesi, rimane un riferimento per le popolazioni, musulmane e non, dell’intera regione.

 

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