di Antonio Campati
Talvolta, la storia delle vicende politiche si sovrappone alla storia del potere, soprattutto quando ‘politica’ e ‘potere’ appaiono facce della stessa medaglia; o quando la prima somiglia a una freccia senza punta, se non riesce a godere dei mezzi che le mette a disposizione il secondo.
Silvio Berlusconi ripete spesso che, quando era alla guida del governo, non è riuscito a portare a compimento l’auspicata «rivoluzione liberale» perché non aveva il «potere» sufficiente per farlo. Forse facendo tesoro dell’insegnamento, poche settimane dopo aver assunto lo stesso incarico, Matteo Renzi ha impresso un’evidente accelerata al processo di modifica dell’architettura istituzionale per disegnare un nuovo equilibro dei «poteri», cercando (anche cambiando la sola prassi) di accentuare quello esecutivo. Agli occhi del Presidente del Consiglio, il risultato è talmente cruciale che, qualora non si raggiungesse, non esiterebbe a considerare concluso il proprio impegno politico.
All’osservatore esterno, simili prese di posizione appaiono, in genere, come una giustificazione per non dover ammettere un fallimento, un escamotage per influenzare in una predeterminata direzione il dibattito pubblico, oppure come un insieme di buoni propositi.
Eppure, chi non è mai stato nella mitologica «stanza dei bottoni» (dove sembra che le sorti del paese vengano decise da quelle poche persone che vi hanno accesso) non può realmente capire se ciò che si dice attorno al potere sia effettivamente vero. In altri termini, è sempre interessante ascoltare la voce di chi ha vissuto all’interno degli spazi del potere politico italiano e cerca di ragionare su cosa il potere è stato e con quali vesti si presenta oggi.
Un’utile lettura in tal senso è quella che ha offerto recentemente Marco Follini ne “La nebbia del potere. La politica divisa tra il silenzio del Palazzo e l’urlo della Piazza” (Marsilio 2014, pp. 121, € 10,00). Come specifica nelle prime pagine, l’autore ha frequentato il «labirinto politico italiano» con «un misto di passione e disincanto» tale da consentirgli di «farsi un’idea delle ragioni della disfatta di questi anni». E, senza troppi giri di parole, sostiene che «la crisi della politica italiana è essenzialmente una crisi di potere».
L’agile saggio di Follini si concentra su un aspetto che è difficile da mettere a fuoco in maniera limpida e, per essere colto almeno nei suoi lineamenti generali, richiede un ponderato approfondimento. Scrive l’autore che il potere si è «separato da se stesso», rinunciando a giocare la sua partita perché «privo di idee» e «di carattere». In altri termini, argomenta Follini, «il potere politico che abbiamo visto all’opera in questi anni dalle nostre parti non ha quasi mai cercato di farsi forte delle sue ragioni e neppure di correggere i suoi torti. Ha perso la solennità che di solito lo accompagna, e anche l’agilità con cui si dovrebbe divincolare dalle difficoltà». Per tali ragioni, oggi, sembra vagare nella nebbia. Una nebbia «che ci ha fatto perdere di vista ogni percorso. Sbarrando il passo tanto alla conservazione quanto al cambiamento».
La prospettiva delineata da Follini getta lo sguardo anche oltre i confini nazionali, dove analogamente la ‘fine’ del potere rappresenta un aspetto dirimente nei sistemi democratici, tanto da essere costitutivo delle moderne società liquide nelle quali si è «liquefatto anche il potere». Ma, certamente, dentro le mura domestiche, la questione si colora «di tinte e di sfumature assai particolari». Noi italiani, scrive Follini, «crediamo molto nel potere. Pensiamo di esserne specialisti. Sia quelli più pratici, che amano gestirlo. Sia quelli più romantici, che sognano di cambiarlo. Sia quelli più arrabbiati, che pretendono di castigarlo. Ognuno lo vede a modo suo, come una certezza, una possibilità o magari una minaccia. Ma tutti lo prendono in parola. Magari anche troppo».
E, in effetti, secondo l’autore, non mancano episodi in grado di confermare tale sensazione: dal potere «verticale» con il quale ha preso avvio la storia nazionale, a quello gerarchico e totalitario, ma anche «protettivo», del fascismo che vuole «dominare le masse e, insieme, accudirle». Fino al potere «orizzontale», «policentrico» della prima repubblica che si organizza come una «fitta ragnatela di corpi intermedi», ma che durante gli anni Ottanta «perde ogni forma di sacralità», diventando accessibile, comune, alla mano, con un metafora: «scende dal piedistallo dove si era arrampicato in virtù della solennità delle sue ideologie e tradizioni».
Ma il potere cambia – e tanto – anche durante la genesi e lo sviluppo della seconda repubblica, quando diventa «illusorio», capace di alimentare quella che Follini stesso, in un altro libro, ha definito la «democrazia emozionale», nella quale sotto la regia di Berlusconi una rilucente democrazia delle emozioni avrebbe dovuto prendere il posto della polverosa democrazia ideologica (M. Follini, “Elogio della pazienza. Perché la lentezza fa bene alla democrazia”, Mondadori 2010, cap. III).
È un passaggio storico sul quale Follini torna anche in quest’ultimo lavoro e in maniera alquanto perentoria, soprattutto quando scrive che «la seconda repubblica non è mai esistita. Eppure è durata una ventina d’anni, e ha potuto intonare i suoi inni e disporre in campo le sue bandiere in vista di una battaglia che non ha combattuto». Così, quasi inevitabilmente, è cambiata la natura del potere politico, che diviene «propagandista di se stesso», sulle note di una nuova colonna sonora – quella demagogica – animata da una rappresentazione che «esige che si dica che il potere si è trasmesso dal vertice alla base, dal centro alla periferia, dallo Stato alla società, dal Palazzo alla gente». Ma, in verità, «il declino del militante e l’avvento dello spettatore parlano di un’altra storia. Nella quale il campo della politica si restringe e la piramide del potere si innalza».
Difatti, la (cosiddetta) seconda repubblica è caduta su se stessa, priva di una qualsiasi «storia da raccontare», di un «mito da rinverdire», di «un’emozione da trasmettere», differentemente, nota Follini, dal quadro che si delineò sul finire della repubblica dei partiti che, invece, aveva lasciato intravedere i resti delle antiche civiltà politiche che (già allora) si poteva prevedere non sarebbero risorte, ma «neppure che sarebbero svanite senza lasciare traccia e magari senza rimpianti di sorta».
Questa sorta di «vuoto» è il sintomo dell’ultima trasformazione del potere che, divenuto ormai «simbolico», smentisce la sua stessa natura, quella cioè di «spiegarsi con esempi, tradursi in gesti, farsi operativo». E, soprattutto, obbliga gli attori politici a immergere il loro discorso nel presente, in «un tempo così corto che sembra non avere mai modo di sfidare le dure leggi della quotidianità». E tale «vuoto», scrive Follini, è in fondo la conseguenza principale di un potere che ha smesso di essere «esercizio di una responsabilità» e, pertanto, predisposto ad accogliere sempre nuovi e (effimeri) miti.
La riduzione dello spazio di azione della politica, la progettualità ridotta al lumicino, una rappresentazione (non più una rappresentanza) nella quale i sentimenti «si dilatano a dismisura» sono i caratteri della vicenda politica odierna, nella quale il potere «è passato da una fiducia eccessiva nelle proprie capacità e nella propria tenuta a una fiducia altrettanto eccessiva, e quasi acritica, nelle risorse del populismo». Infatti, i leader politici si sono illusi che assecondando il clima di sfiducia manifestato della «gente» sarebbero stati in grado di superare la tempesta che li stava travolgendo. Si sono sbagliati.
Ma soprattutto, conclude Follini, hanno svelato che la sfiducia non è solo quella degli elettori nei confronti dei loro leader, ma anche quella dei leader verso le proprie possibilità: «sono i potenti che non credono più nel potere». È vero – ammette ancora Follini – che talvolta il potere acceca e confonde, ma il «non-potere» sembra non aver prodotto risultati migliori. Il potere, in sostanza, «ha perso la sua voce» perché ha sposato l’attitudine demagogica «ad accarezzare per il verso del pelo ogni opinione, ogni tendenza alla moda e perfino ogni pregiudizio e ogni avversità» e, pertanto, oggi è immobile a «recitare una giaculatoria». Che anche quest’ultima «operazione di potere» non stia riuscendo indica, secondo Follini, solo un’altra ovvietà. Ma acquisirne la consapevolezza non è affatto banale, men che meno inutile.
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