di Alessandro Campi

imagesNon molti lo ricordano, ma i primi tentativi di introdurre le elezioni primarie nel nostro sistema politico risalgono alla Commissione Bozzi per le riforme istituzionali (era il 1985). Fu Gianfranco Pasquino, politologo e all’epoca senatore della sinistra indipendente, a proporle come strumento di selezione dei candidati all’interno dei partiti. Ma quel progetto (come qualunque altra proposta di riforma, da allora sino ad oggi) rimase lettera morta: i partiti erano ancora strutture forti e solide, non sentivano il problema di doversi rinnovare dall’interno.

Si sa quello che è successo poi: Tangentopoli, il tracollo della Prima Repubblica causato dalla corruzione e dall’azione della magistratura, la scomparsa dei partiti che avevano fatto la storia dell’Italia repubblicana, lo scollamento crescente tra cittadini e istituzioni, la delegittimazione della politica e dei suoi rappresentanti.

I partiti ideologici di massa furono sostituiti, nel passaggio verso una fantomatica Seconda Repubblica, da strutture personalistiche o a guida carismatica, da comitati elettori e da partiti che – senza più identità, con sempre meno attivisti e militanti, perso l’antica capacità di radicamento sul territorio e di comprensione dei movimenti nella società – furono benevolmente definiti leggeri o liquidi.

L’adozione delle primarie da parte della sinistra fu il tentativo, tra il coraggioso e il disperato, di rispondere ad una crisi che pareva inarrestabile di legittimazione e funzionalità. Fu un processo animato da grande volontà ma anche caotico e non sempre lineare, che sollevò non pochi dubbi. Mancavano una tradizione e una mentalità, si trattò di inventare regolamenti e procedure, furono inevitabili intoppi e manipolazioni, dubbi e ripensamenti.

Nel 1999 lo strumento venne utilizzato una prima volta a Bologna per scegliere il candidato alla carica di sindaco. Ma l’esordio vero fu nel 2005: attraverso le primarie fu scelto in primavera il candidato dell’Unione per le elezioni regionali in Puglia (vinse a sorpresa Vendola) e in ottobre il capo della coalizione che avrebbe dovuto affrontare Berlusconi alle politiche (vinse trionfalmente Prodi). Da allora sono diventate, in quell’area politica, uno strumento sempre più ordinario di selezione e partecipazione: per l’individuazione dei candidati (dalle comunali alle politiche) ma anche dei vertici di partito. La loro apoteosi, anche mediatica è stata la battaglia per la guida del Pd, che ha visto l’affermarsi di Matteo Renzi sulla vecchia guardia post-comunista. Molto ci sarebbe da dire su ogni singolo appuntamento, considerando che non sono mancati scandali e opacità. Sarebbero da ricordare le discussioni sulle primarie aperte o chiuse, su chi far votare: se tutti i cittadini (potenzialmente) o se solo gli iscritti. Andrebbe chiarito che un conto è la scelta dei candidati ad un appuntamento elettorale e un conto è la battaglia per la leadership di un partito: primarie in senso proprio sono soltanto le prime. Ma al di là di ogni possibile distinzione resta un fatto politico, un effetto di sistema, sul quale richiamare l’attenzione: per quanto imperfette o discutibili, le primarie sono il mezzo attraverso il quale la sinistra italiana, nell’arco di dieci anni, si è profondamente rigenerata, negli uomini e nelle idee. Se il suo problema era rinnovare i gruppi dirigenti e immettere nuove energie nei ranghi, aprirsi a nuovi orizzonti mentali e nuove battaglie, tornare ad essere competitiva e vincente, quell’obiettivo – proprio attraverso la competizione innescata dalle primarie a partire dal territorio – sembra essere stato raggiunto. E più che un dato politico, lo si può ormai considerare un fatto storico.

Si capisce dunque perché anche nel centrodestra, soprattutto da quando si è capito che il ciclo politico berlusconiano volgeva inesorabilmente al tramonto, il miraggio delle primarie abbia preso a circolare con relativa insistenza. Anche in un mondo politico all’interno del quale il Cavaliere ha sempre deciso tutto, candidature e carriere, promozioni e rimozioni, anche all’interno di un partito nel quale non sono mai esistite forme aperte di competizione e dissenso, le primarie potevano fungere – se adottate – come valvola di sfogo e come forma di rinnovamento.

Ma chiunque all’interno del mondo berlusconiano o nei suoi paraggi le abbia chieste e sollecitate si è sempre visto rispondere – da ultimo, in questi giorni, il povero Raffaele Fitto (nella foto) – che le primarie non solo sarebbero una tardiva scopiazzatura della sinistra (e già questo non depone a loro favore sul piano politico e dell’immagine), ma soprattutto sarebbero inutili attestata la persistenza in questo mondo di un capo assoluto che sarà pure in difficoltà, ma la cui capacità di guida nessuno può pensare di mettere in discussione.

Insomma, sino a che c’è Berlusconi le primarie non servono a nulla, o magari giusto servirebbero – se utilizzate – a certificarne il ruolo preminente all’interno di un partito che peraltro è il suo in senso letterale. Si può immaginare, come qualcuno suggerisce, di ricorrere ad esse in una logica di coalizione, nella prospettiva di uno scontro elettorale, ma una coalizione non guidata da Berlusconi sinora non si è mai vista. E se è vero che la competizione ormai gli è interdetta per legge, resta da capire la sua disponibilità ad accettare un candidato che non sia scelto con l’unico criterio che in vita sua, per mestiere e mentalità, ha sempre utilizzato: la designazione unilaterale e dall’alto, basata sulla fiducia e lealtà personali del prescelto verso il capo.

In realtà il problema del centrodestra (e del mondo berlusconiano in particolare), soprattutto alla luce degli ultimi esiti elettorali, è ben più vasto. Non si tratta della guida del partito o della coalizione elettorale, ma della mancanza di una classe dirigente sul territorio, mentre quella a livello centrale non si è mai dovuta conquistare il posto che occupa. Il problema è l’inconsistenza organizzativa, la paralisi progettuale, l’incapacità a dialogare con i propri mondi sociali di riferimento.

C’è chi ritiene, guardando a quel che è successo a sinistra, che le primarie potrebbero servire a rimuovere questa situazione di blocco, innestando una competizione politica virtuosa, nel partito e, allargando i confini, tra alleati: nuove uomini, un nuovo sguardo sulle cose, un altro centrodestra. Ma Berlusconi insiste con un altro modello: la ricerca del personale politico affidata, non alla lotta, ma ai provini in stile televisivo, al reclutamento pilotato dall’alto e secondo criteri di merito da lui personalmente fissati. Nella sua visione, evidentemente, non si tratta di partecipare ad un processo politico, ma di aderire ad un progetto. Non si tratta di conquistarsi un posto vincendo una competizione interna, ma di vederselo assegnato avendo determinati requisiti (in primis l’accettazione acritica del leader). Ma stando così le cose si capisce perché la discussione sulle primarie nel centrodestra sia, oltreché frustrante per chi le caldeggia, anche una colossale perdita di tempo.

 

Lascia un commento

Your email address will not be published. Required fields are marked (required)