di Chiara Moroni

Mentre il centrosinistra italiano sta dando un segnale di democraticità interna dimostrando cosa significhi porre al vaglio degli elettori diverse possibilità politico-programmatiche attraverso un legittimo confronto pubblico, il centrodestra sta confermando, semplicemente, il fatto di non esistere. Ancora una volta, dopo il fascismo e dopo il berlusconismo, le forze che incarnano questa area politica si dimostrano incapaci di dare vita ad una proposta di destra che sia moderna, riformista, innovatrice, europea nel taglio del dibattito, nella prospettiva politica, nelle idee ispiratrici.

Il successo elettorale del primo Berlusconi nasceva da un contesto storico-politico favorevole e dal fatto che finalmente in Italia veniva fatta una proposta politica di centrodestra, moderata e capace di dare voce a quella maggioranza di Italiani non di sinistra, la cui rappresentanza politica ed istituzionale era stata spesso frustrata.

Quel successo ha legittimato la politica di destra – fin dal dopoguerra relegata all’etichetta negativa del postfascismo – e ha aperto la prospettiva per una sua crescita ideale e valoriale che – di pari passo con la ristrutturazione della sinistra – aveva fatto sperare nella costruzione di un sistema bipolare nel quale forze unitarie di centrodestra e di centrosinistra si potessero confrontare in un contesto democratico maturo.

Oggi ci troviamo in una situazione assolutamente sbilanciata a favore del centrosinistra. Infatti, quest’ultima, con tutti i limiti e le difficoltà che ha vissuto negli anni e che sono lontane dell’essere pienamente risolte, è riuscita a fare della lotta tra correnti interne una competizione trasparente, di respiro nazionale e soprattutto ha saputo affidare la scelta della prospettiva vincente ai cittadini, sottraendola in tal modo alle dinamiche di potere fine a se stesse.

Nulla di più lontano da quanto sta accadendo nel centrodestra costituito essenzialmente da un partito, il PdL, abbandonato dal suo leader carismatico, privo di una leadership istituzionalizzata, incapace di fare quel passo di qualità che gli permetterebbe di dare contorni ideali e contenuti programmatici ad una proposta di destra, democratica, moderata, riformatrice, popolare. Al tempo stesso il progetto finiano di dare vita a questa prospettiva innanzitutto su di un piano culturale, è naufragato a dispetto del consenso diffuso che aveva inizialmente ottenuto, invischiato nei limiti personali e politici di Fini e di coloro, pochi, che lo hanno seguito nelle peripezie del tatticismo politico più miope e sterile.

Solo due giorni fa Alfano chiosava un suo intervento pubblico dichiarando che il PdL si stava rapidamente avviando verso un rinnovamento fondato su scelte “dal basso e democratiche” che avrebbero “posto fine alle nomine dall’alto”. Oggi Berlusconi, ancora una volta, smentisce una qualunque autonomia politica del segretario del PdL, negando la possibilità di un dibattito interno, di un confronto democratico che possa aprire il partito ai cittadini e agli elettori, rifiutando di fare le primarie – atto simbolico di tale apertura – sotto la minaccia di costruire un partito nuovo per ristabilire le logiche di fedeltà personale che sole riesce a concepire.

Il PdL muore sotto i colpi della personalità padronale e personalistica di un capo che non lo ha mai amato – perché nei fatti non gli ha permesso quel rinnovamento di immagine e quindi di consensi che ne aveva ispirato la fondazione – e il centrodestra si svuota di quelle promesse di rinnovamento positivo alle quali ci si è ispirati a lungo.

Alcuni esponenti del Pdl, come Alemanno, in queste ore di confusione assoluta chiedono con forza e determinazione di non tornare indietro ma di continuare a lavorare per la costruzione di un centrodestra unitario ispirato a quei valori che sono maggioritari tra gli italiani e che saprebbero ispirare una proposta di governo alternativa a quella della sinistra. Questi dovrebbero con coraggio lasciare che Berlusconi, circondato solo della sua corte di yesman, torni al passato cercando inutilmente di rivivere la gloria che è stata di Forza Italia, forti del fatto che quel progetto non avrebbe un reale riscontro elettorale e di consensi perché oggi sono diverse le condizioni storico-politiche, sono diverse le richieste e le percezioni degli elettori, sono diverse, infine, le logiche che ispirano il voto.

Si lasci che Berlusconi continui a perseguire la sua ormai patologica ricerca del “nuovo” che si declina solo come mero restyling di immagine, anche quando egli stesso è il primo a non esserlo più e ad aver perso ogni credibilità politica. Questo creerebbe lo spazio politico per dare vita, finalmente, a quel progetto di cui l’Italia ha bisogno, di un partito unitario del centrodestra che coaguli le forze moderate e riformatrici, e che acquisti una fisionomia democratica e accogliente.

C’è nell’area di centrodestra un uomo che sappia trasformare quello che ancora è solo uno slogan in un progetto politico? Che sappia cioè creare un partito che nelle parole di Adolfo Urso deve essere “moderato ma non moroteo, riformatore e non conservatore, popolare e non populista, moderno ed europeo”?

Probabilmente quell’uomo non è e non può essere Angelino Alfano, nonostante i più lo invochino come garante del cambiamento, perché troppo berlusconianamente forgiato: nel linguaggio, nella visione della politica, nella fedeltà a colui che nella politica gli ha dato credito.

Naturalmente non esiste la ricetta definitiva per salvare dalla debacle più assoluta il centrodestra, ci sono però volontà politiche autonome, passioni genuine, prospettive che hanno una loro validità intrinseca, devono solo saper trovare la forza culturale, identitaria e naturalmente politica di farsi avanti, lasciando il capo “miope” alle sue fragilità personali che lo spingono a non voler cedere il passo al rinnovamento vero e concreto, in una parola al futuro del centrodestra.