di Alberto Gasparetto

imagesCAH86XADCome sono cambiate le principali culture politiche italiane nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica? Come sono sopravvissute sino ad oggi? Sotto quale forma si presenta il capitale sociale oggi? Mediante quali criteri una democrazia di qualità può essere definita tale? E’ possibile parlare di democrazia di qualità con riferimento al caso italiano? Sono questi solamente alcuni dei quesiti di fondo che hanno mosso l’intensa attività di ricerca del politologo Marco Almagisti (nella foto) negli ultimi quindici anni e che vedono raccolti i suoi sforzi in quest’ultimo lavoro intitolato Una democrazia possibile. Politica e territorio nell’Italia contemporanea (Carocci, 2016).

Ispirandosi ai lavori pionieristici sulla cultura politica e sul capitale sociale, quale ad esempio l’opera di Putnam (Mondadori, 1993) sul rendimento istituzionale delle regioni italiane – in base a cui le differenze di rendimento istituzionale di regioni italiani diverse, pur adottando simultaneamente a partire dal 1970 il medesimo sistema istituzionale, andrebbero attribuite a tradizioni storico-politiche che affondano le proprie radici nell’esperienza comunale del Medioevo italiano – l’autore focalizza l’attenzione sul concetto di «capitale sociale» come principale fattore esplicativo e presupposto empirico per una democrazia di qualità. Ricorrendo alla metodologia di ricerca tipica della politologia storica, Almagisti tenta di spiegare elementi di continuità e di discontinuità riguardanti il voto, le tradizioni e le pratiche politiche, i riti collettivi, l’organizzazione della società e delle attività economiche nel passaggio dalla nascita del Regno d’Italia, passando per il periodo fascista e dal Secondo dopoguerra ai giorni nostri – con riferimenti storici anche alle vicende dell’Italia pre-unitaria. La sua riflessione parte dalla presa d’atto che per studiare i fenomeni politici contemporanei sia necessario superare la diffusa tendenza di certa politologia al «presentismo», approccio che ritiene di poter spiegare gli eventi politici contemporanei rinunciando ad un’analisi inserita in una dimensione storica, per recuperare pienamente un tipo di ricerca storiografica che cerca anche nel passato le spiegazioni dei fenomeni del presente. E’ così che al centro della sua analisi vengono poste le cosiddette «subculture politiche territoriali», ritenute significative nel dar conto dell’evoluzione delle tendenze del panorama politico italiano, la Toscana «rossa» ed il Veneto «bianco». Richiamandosi alla definizione di Carlo Trigilia, per «subcultura politica territoriale», Almagisti intende «“un particolare sistema politico locale, caratterizzato da un elevato grado di consenso per una determinata forza e da una elevata capacità di aggregazione e mediazione degli interessi a livello locale” che si esprime in una fitta rete istituzionale (partito, Chiesa, gruppi di interesse, associazioni assistenziali, culturali e ricreative) coordinata dalla forza dominante» (p. 83).

Protagonisti indiscussi della socializzazione al sistema delle regole democratiche nell’Italia del Secondo dopoguerra – e, quindi, qualcosa più che semplici “ponti” fra società ed istituzioni – non potevano essere che i partiti, tra i più significativi corpi intermedi che hanno contribuito in maniera determinante al processo di ancoraggio della democrazia nell’Europa occidentale. Ricostruendone dettagliatamente le vicende, attraverso un costante riferimento a testi di letteratura storiografica, Almagisti fa notare che i due principali partiti sulla scena politica italiana, la Democrazia cristiana, influente nella «zona bianca», ed il Partito comunista, egemone nella «zona rossa», sono stati in grado di tesaurizzare l’enorme dotazione di capitale sociale ricevuto in eredità dalle preesistenti subculture politiche locali e l’hanno valorizzato al fine di «incapsulare» i conflitti, cioè dandone rappresentanza affinché si potesse tenere a bada il potenziale escludente e distruttivo (bonding) determinato dalle principali fratture che hanno percorso il tessuto sociale del Paese: nello specifico, ricalcando lo schema tracciato a suo tempo da Stein Rokkan (1970) i cleavage centro-periferia e quello Stato-Chiesa.

copDunque, perché questo libro? L’autore ha avvertito l’esigenza di fare il punto della situazione del proprio percorso scientifico in una situazione, come quella euro-occidentale, in cui ormai da tempo le culture politiche tradizionali sono state messe a dura prova, da un lato, dalle nuove sfide della globalizzazione, e, dall’altro, dai processi di mediatizzazione e personalizzazione della politica che hanno accompagnato, quando non addirittura accelerato, la crisi dei partiti. In particolare, sul versante italiano si è assistito al passaggio dagli anni Settanta, caratterizzati dall’affermazione dei movimenti sociali e dalla violenza politica da entrambe le parti, alla fase successiva, in cui la tendenza alla personalizzazione della politica ed il progressivo incedere dei mezzi di comunicazione (in primis, la televisione) ha portato all’emersione di nuovi modelli di partito, non più radicati territorialmente, ma contraddistinti da una dimensione «liquida» indotta dalla crisi di identità dovuta alla «fine delle ideologie» e da un nuovo modo di comunicare e socializzare attraverso la Rete. La crisi dei partiti e del sistema politico italiano comincia proprio in quella congiuntura seguita al fallimento del «compromesso storico» e all’accelerazione impressa dalle vicende degli anni Ottanta (diffusione della televisione commerciale, nuovi consumi, corruzione dilagante dei partiti dell’establishment, personalizzazione della politica in fase embrionale, aumento smisurato della spesa pubblica a fronte di performance non altrettanto in linea a livello di prodotto nazionale lordo). Le vicende di Tangentopoli, l’istituzione di una «Seconda» repubblica in seguito allo sfaldamento del vecchio sistema dei partiti e all’introduzione della nuova legge elettorale corretta in senso maggioritario (il Mattarellum) non risolvono le contraddizioni di fondo del sistema.

Pertanto, non è un caso che, prendendo atto delle tendenze attuali, l’analisi storico-politologica di Almagisti abbia finito per esaltare, in maniera assolutamente «laica», le virtù del partito nella funzione di ancoraggio alla democrazia nascente nel Secondo dopoguerra di grosse fette della società italiana, evidenziando il ruolo della DC e dello stesso PCI (alla luce, nonostante tutto, del rapporto ambiguo dato dall’adesione convinta all’ideologia comunista e al mito della rivoluzione e dal rapporto stretto con Mosca) quali contenitori «di un’ideologia politica articolata e intensamente vissuta che funge da fattore di coagulo, da calmiere, costruendo una prospettiva di lungo periodo, che produce integrazione di sistemi di interesse e solidarietà, rendendo possibile contemporaneamente una lenta, quotidiana socializzazione ai codici della democrazia pluralista» [pp. 149-150, corsivo aggiunto]. Nonostante il carattere di sistema partitico congelato che rendeva impossibile l’alternanza, il merito della DC e del PCI è stato quello di approfondire le dimensioni di responsiveness e accountability che hanno permesso che si realizzasse in maniera unica l’«ancoraggio alla democrazia». Oggi, sottoposto alle tensioni suscitate dal potere dei media, il ricco capitale sociale creatosi nel corsi dei secoli e utile ad un più agevole insediamento dei partiti nella società, si trova a doversi riorganizzare sotto nuove forme. Per tale ragione, e contrariamente al senso comune, Almagisti sottolinea la distinzione fra il fenomeno della tendenza alla personalizzazione e alla mediatizzazione e quello della «disintermediazione», concetto con cui si intende «il generale declino dei corpi intermedi e delle realtà associative». Supportato anche dai dati delle analisi del sociologo Giovanni Moro, l’autore mostra che se è verosimile la tendenza che vede all’interno delle democrazie contemporanee la crescita della disaffezione della società dai partiti e dalla politica – a causa di fenomeni percepiti come sempre più generalmente diffusi quali la corruzione o la mera «partitocrazia» – dall’altra parte fa notare che le organizzazioni di cittadinanza attiva legate alla risoluzione di problemi specifici di natura sociale (tutela dei malati o degli anziani, temi ambientali, ecc.) mostrano che la nostra società è ancora profondamente intrisa di vivo e vegeto capitale sociale; la differenza, rispetto al passato, sta nel fatto che oggi i cittadini cercano nuove forme organizzative a fianco o al di là di quelle canoniche dei partiti politici.

La parabola della democrazia italiana sembra quindi essere giunta ad un bivio. Per via dell’incedere dei nuovi fenomeni sociopolitici, Almagisti ritiene che non ci si possa più compiutamente riferire al concetto di «subculture politiche territoriali», sebbene la presenza di culture politiche locali sia ancora ravvisabile in alcune zone della penisola. Ai vecchi cleavage individuati da Rokkan e ben descritti da Almagisti nel suo libro se ne sono aggiunti altri come quello fra partiti antiestablishment e partiti che, invece, si proclamano “custodi” di quel sistema e quello, che ad esso ben si sovrappone, fra partiti antieuropeisti e partiti filo-europei, fra partiti antimmigrazione e partiti più inclini all’immigrazione. In Italia, il Movimento Cinquestelle costituisce proprio un esempio di come ormai larghe fette della società, mostrandosi insoddisfatte dei metodi e dei riti tradizionali della politica, considerino ormai i vecchi codici della politica come un retaggio del passato di cui sbarazzarsi anche a spese della stessa forma di democrazia che abbiamo conosciuto negli ultimi duecento anni, quella rappresentativa e puntano sullo sfruttamento dei nuovi cleavage per mettere a nudo la carenza di responsiveness dei partiti di una democrazia ormai «disancorata». In quella che a tutti gli effetti appare come una «lunga transizione» di cui ancora si fa fatica a intravedere la fine, Almagisti riesce con una buona dose di ottimismo, empiricamente fondato, a trovare elementi positivi di fronte alla crisi dei partiti e allo scollamento a cui è sottoposta la relazione che, un tempo certamente più forte, lega i cittadini alle istituzioni. Pur con tutti i suoi limiti e le tensioni che la percorrono da sempre – ai quali si aggiungono quelle innescate dalla crisi dei mercati finanziari del 2007 che ha portato all’ascesa in diverse democrazie europee di gruppi e leader «populisti» – la democrazia italiana è ormai un regime consolidato da settant’anni. Il ridimensionamento del ruolo pubblico della Chiesa nella «zona bianca» (per effetto anche della scomparsa di un partito di sua diretta emanazione), così come il declino del partito nella «zona rossa» – tali per cui, sostiene Almagisti, non è più opportuno oggi parlare di «subculture politiche territoriali» – non ha comunque contribuito al tramonto delle culture politiche locali. La ricchezza di capitale sociale sedimentato nel tempo trova adesso i suoi referenti nella diffusione a livello locale di associazioni di cittadinanza attiva. Sebbene l’esperienza dei grandi partiti di massa sia ormai un mero retaggio del passato, la consapevolezza è che, almeno per il momento, il ruolo dei partiti nell’incapsulare i conflitti che continuano ad affiorare sia una necessità ineluttabile. Ed è plausibilmente per ciò stesso che, a giusto titolo, possiamo concordare con l’autore nel definire il caso italiano ancora come «una democrazia possibile».

 

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