di Leonardo Varasano
La notizia può uccidere. Di giornalismo e per il giornalismo si può morire. È accaduto in passato e continua ad accadere oggi, con insospettabile e preoccupante frequenza. Le ultime vittime, in ordine di tempo, sono Marie Colvin – impavida e storica inviata di guerra del settimanale britannico Sunday Times – ed il fotoreporter francese Remi Ochlik. I due, esperti frequentatori di prime linee e scenari critici, sono morti lo scorso 22 febbraio ad Homs, in Siria, dove l’artiglieria governativa, crudelmente attiva nel reprimere le manifestazioni anti-regime, non ha risparmiato neppure il palazzo adibito a centro stampa: per cercare di attenuare l’eco di stragi sanguinose, l’esercito di Assad ha diretto la propria attenzione verso i testimoni più fastidiosi, prendendo appositamente di mira i giornalisti stranieri.
A perdere la vita non sono però solo i corrispondenti di guerra, i cronisti del fronte, gli emuli di Ernest Hemingway. Raccontare notizie comporta terrore e sangue in molte parti del mondo, anche in assenza di conflitti. Nel 2011, secondo i dati del “Barometro della libertà di stampa” redatto da Reporters sans frontières, i giornalisti uccisi sono stati ben sessantasei, mentre quelli feriti, rapiti, minacciati o torturati ammontano ad oltre tremila. La causa? Sempre la stessa: cronache insopportabilmente scomode, verità che non avrebbero dovuto essere rivelate, segreti di cui la pubblica opinione non sarebbe dovuta venire a conoscenza. Particolarmente difficile in Sudafrica, Somalia, Messico, Russia e Turchia – dove imperano restrizioni e censure, dove in ambito politico ci si deve limitare ai bollettini ufficiali, dove, in nome di asfissianti leggi antiterrorismo, le libertà vengono stritolate -, il mestiere del cronista è presso che proibitivo in Pakistan, India, Cina ed Eritrea. La parola insidia il malaffare e fa sempre più paura: dal 1992 al 2011 – un anno, quello passato, decisamente critico per la libertà di stampa e d’informazione -, i giornalisti uccisi sono stati 890. Quasi il 60% di loro si occupava di politica. E in Italia? Nel nostro Paese – dove pure c’è chi è morto di giornalismo, come Walter Tobagi o Ilaria Alpi, dove pure c’era un partito, il Pci, che schedava i giornalisti, distinguendo tra gli amici e le “iene dattilografe” – negli ultimi dodici mesi si sono contati una dozzina di cronisti sotto scorta e 324 giornalisti vittime di minacce. Cionondimeno il pluralismo e la libertà d’espressione restano valori irrinunciabili, ampiamente tutelati dall’articolo 21 della Costituzione.
Un simile quadro sollecita almeno due riflessioni. Una prima relativa alla situazione italiana. Nel nostro Paese l’attività giornalistica non è immune né da problemi né da sgradevoli pressioni o da intimidazioni. I reiterati timori di bavagli e le ricorrenti manifestazioni in favore della libertà di stampa suonano però eccessivi o addirittura, come è avvenuto nel recente passato, politicamente strumentali: i (veri) nemici della libertà d’informazione stanno, com’è evidente, altrove.
Una seconda riflessione, più generale, riguarda il ruolo e la imprescindibile funzione del giornalista. Sotto la stessa definizione finiscono tipi umani e professionali molto diversi e perfino antitetici. Da un lato ci sono infatti i cronisti senza scrupoli che inseguono solo gossip, scandali e mezze verità, prestano poca attenzione alle fonti – come dimostrano le “canzonature” denunciate da Striscia la notizia – e si atteggiano a “guide passive delle passioni popolari”, “personificazione evidente della volubilità del volgo”, come li definiva il critico letterario Luigi Russo nel suo “Ritratti e disegni storici: da Machiavelli a Carducci”. Dall’altro lato c’è una fitta schiera di giornalisti – senza dubbio maggioritaria – devoti ad un’informazione responsabile, attenti alla deontologia professionale, meticolosi nell’aderenza alla realtà e nel fare l’autopsia – ovvero la visione e conoscenza diretta, con i propri occhi, come suggeriva già Erodoto – dei fatti.
Esercitato come nel secondo caso, con acribia ed onestà intellettuale, il giornalismo esalta la forza della parola, offre un servizio fondamentale alla collettività, alimenta la libertà e la democrazia. Tanto da essere pagato con il sangue ancora in troppe parti del mondo. Tanto da meritare di essere difeso con vere e motivate iniziative in favore della libertà d’informazione.
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