di Alessandro Campi
Viviamo uno strano paradosso. Si studia sempre meno la storia, considerata una dimensione della conoscenza che nulla può più insegnarci, estranea per di più al nostro modo di vivere il tempo alla stregua di un eterno presente, ma il passato – prossimo e remoto – è sempre più oggetto di contesa, di appropriazioni strumentali e di polemica politica.
L’America liberal si vergogna che a scoprire il proprio paese sia stato Cristoforo Colombo: un tempo il genovese incarnava lo spirito d’avventura e il fascino della scoperta, oggi lo si considera un colonialista e uno sterminatore di popoli e si chiede di non festeggiarlo più e di abbatterne le statue. In Polonia si è votata una legge per smentire ufficialmente che i polacchi, foss’anche una minoranza di carnefici volenterosi, abbiano avuto qualcosa a che fare con lo sterminio degli ebrei. I turchi non vogliono essere associati in alcun modo al genocidio armeno, che negano come responsabilità sul piano politico e che vorrebbero espunto come argomento dai libri di storia: anche in quel paese c’è una legge che consente di parlarne ma solo per dire che non si è mai verificato.
Ma c’è dell’altro, basta leggere le cronache. Tra Grecia e Macedonia indipendente è in corso una dura contesa su chi abbia diritto a rivendicare politicamente, dopo duemila e quattrocento anni, l’eredità di Alessandro il Grande. In Italia si denuncia il rischio concreto di un ritorno del fascismo, che si vorrebbe ridurre sul piano della memoria collettiva ad una parentesi unicamente criminale, e nel contempo si proietta nei cinema una pellicola in cui s’immagina che Mussolini sia tornato a camminare per le strade del Belpaese (ma forse, come diceva Longanesi, non se n’è mai andato, è sempre stato “un morto tra noi”, un monito per la nostra cattiva coscienza di antifascisti che hanno dimenticato di essere stati fascisti in massa). In Russia i settantacinque anni dalla battaglia di Stalingrado sono serviti a Putin per cementare, sulle ceneri mai completamente rinnegate del comunismo di Stalin, l’alleanza ideologica tra nazionalismo slavofilo e chiesa ortodossa su cui l’ultimo abitante del Cremlino ha fondato il suo potere assoluto. Il Sessantotto, ci stanno dicendo i reduci di quella stagione ora che se ne ricorda il cinquantennio, è stata una festa libertaria che nulla ha avuto a che vedere con la violenza politica e con l’ottundimento ideologico tipico di tutte le stagioni d’esaltazione rivoluzionaria.
Sono esempi, presi un po’ a caso, di come il passato dei singoli e dei popoli, vicino e lontano, sia sempre più oggetto di manipolazioni e di riletture dettate da ragioni politiche o interessi contingenti. In realtà è sempre accaduto: nazioni e Stati, partiti e movimenti politici, hanno spesso attinto dal magazzino della storia i simboli, i miti e le immagini necessari a costruire la loro legittimità e a dare spessore alle loro formule ideologiche. Il problema è fino a che punto può spingersi la manipolazione. Quand’è che l’uso strumentale della storia si risolve nella diffusione, magari col sigillo dello Stato o con la complicità della stessa comunità intellettuale, di una menzogna deliberata? E sino a che punto la storia, nella complessità dei suoi intrecci, che rendono difficile discernere colpe e meriti, può essere surrogata, come oggi sempre più spesso accade, dalla sua rielaborazione memoriale, per definizione parziale e selettiva?
L’odierno uso disinvolto della storia, se da un lato nasconde la crescente difficoltà a fare i conti con essa avendone elaborato una visione turistica e irenica che non sopporta più le passioni dolorose, le violenze e le ingiustizie di cui essa è purtroppo intrisa e tende dunque a rimuoverle chirurgicamente, dall’altro indica un vuoto crescente, negli individui e nelle collettività, di identità e di progettualità. Vuoto che si cerca di colmare nell’unico modo possibile: prendendo dalla storia ciò che può servire a rendere le nostre esistenze meno inquiete ed errabonde, o a confortarci nelle nostre effimere credenze.
Non è dunque strano che la storia divenga oggetto di manipolazioni e scomposizioni ad hoc proprio in una fase culturale in cui si ha la tendenza a mettere in discussione, nel nome dell’autenticità, del relativismo e della libera determinazione dei singoli, ogni certezza o fondamento o sapere acquisito. Privato di ogni oggettività dal punto di vista conoscitivo, ridotto ad un bricolage in cui si affastellano date, nomi ed episodi senza più alcuna connessione concettale e consequenzialità temporale, il passato serve ormai soltanto a dare un minimo spessore e una qualche parvenza di credibilità alle nostre convinzioni e passioni del momento, che prese in sé altrimenti non avrebbero alcuna forza persuasiva. A questo fine, lo si ricostruisce ad arte o se ne prende solo ciò che piace e fa comodo, eliminando tutto il resto e condannandolo sulla base dei nostri criteri morali odierni.
Ma se dall’uso pubblico-pedagogico della storia, su cui si polemizzava qualche anno fa temendo che potesse legittimare oscuri disegni politici, si è nel frattempo passati al suo abuso ideologico-propagandistico, alla sua falsificazione mediatica e persino a livello ufficiale, è anche perché chi della storia dovrebbe essere il custode o l’interprete-narratore professionalmente autorizzato, appunto lo storico, tende ormai a sfuggire la discussione pubblica e non far sentire la propria voce nel dibattito politico in modo autorevole e indipendente. La storiografia che si chiude sempre più nelle accademie alla stregua di un’inutile disciplina, o che peggio tende a sua volta a piegarsi ai disegni e proclami della politica o all’effimero culturale dominante, lascia inevitabilmente il campo libero agli avventurieri del sapere, ai manipolatori e ai bricoleur intellettuali.
Si teme oggi il ripetersi della storia nelle sue pagine più brutali e violente, e dunque si consiglia di rimuoverle o dimenticarle, o di riscriverle in una chiave moralmente edificante, capace di tracciare un confine netto tra Bene e Male. Ma quello che poi si scopre è che il peggio di noi nasce sempre dall’ignoranza della storia reale. Se lo sparatore di Macerata avesse letto qualche buon libro su Mussolini, invece di dilettarsi su una copia anastatica del Mein Kampf e di prendere per buona la caricatura criminalizzante e brutale del fascismo, ovvero la sua rappresentazione grossolanamente bonaria e assolutrice, che spesso si sentono circolare nei media e nel dibattito politico, forse non sarebbe guarito dalle sue private ossessioni, ma certamente non si sarebbe votato al ruolo di criminale-giustiziere nel nome di un’idea politica morta che per lui (ma c’è da temere per molti della sua generazione) è poco più di un tatuaggio sulla fronte o di uno slogan, pro o contro, da gridare nei cortei.
* Editoriale apparso sui quotidiani ‘Il Messaggero’ e ‘Il Mattino’ del 6 febbraio 2018.
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