di Chiara Moroni
L’antipolitica è oggi nutrimento quotidiano del dibattito pubblico, la società tutta, individui, gruppi, categorie economiche e sociali si abbattono con virulenza sul sistema politico che versa in condizioni terribili, tanto terribili che oggi sono gli stessi politici a promuovere un messaggio antipolitico. Nella speranza, infatti, di convincere gli elettori – che sono sempre meno cittadini e sempre più soggetti da blandire, esortare, persuadere come fossero consumatori recalcitranti – di essere estranei alla totale mancanza di etica e di responsabilità che ha segnato decenni di pratica politica, coloro che ancora non sono stati travolti dalle indagini della magistratura e dal linciaggio mediatico, deprecano la corruzione diffusa, il basso livello della classe politica e i relativi discutibili meccanismi di selezione, invocano leggi anti corruzione, si accusano vicendevolmente di non aver vigilato, di aver taciuto o come minimo di aver giustificato in nome del “così fan tutti”. In realtà non ci sono “innocenti” perché la colpa di tutti, per quanto minore la si voglia considerare, è di non aver denunciato quello che non potevano non vedere e non sapere.
La classe politica dovrebbe tutta fare uno, se non simbolicamente due, passi indietro, riconoscere il fallimento individuale e di sistema, tornare ad un’etica della politica fondata innanzitutto sul principio del servizio dell’intesse collettivo, garantendo il più trasparente riconoscimento della sovranità popolare.
Non si vuole qui difendere un autodistruttivo messaggio antipolitico, anzi, in nome della politica vera, responsabile e costruttiva, la si vuole difendere dall’uso distruttivo che la classe politica italiana ne ha fatto per decenni.
In realtà, però, i problemi del nostro Paese non si esauriscono nella corruttibilità ideale, quando non materiale, del sistema politico. Ci si deve chiedere se davvero è una certezza che per garantire un miglioramento concreto delle condizioni generali del nostro Paese sia sufficiente cancellare la classe politica esistente e rimettere nelle mani del popolo la sua sovranità, vale a dire la capacita di scegliere e delegare coloro che possono e sanno governare.
La domanda non è retorica, ma sembra del tutto evidente che è proprio rispetto alla capacità dei cittadini italiani di esercitare la propria sovranità che oggi è necessario manifestare i dubbi più preoccupanti. Perché è certo che il fallimento della politica sia attribuibile a coloro che l’hanno incarnata, ma è altrettanto evidente che quei soggetti, come rappresentanti della società civile, ne sono anche una “rappresentazione”.
In democrazia il popolo delega l’esercizio del potere ad organi rappresentativi che sceglie attraverso il voto, mantenendo il dovere di controllare e il diritto di revocare quella delega.
Tali facoltà – controllo e revoca del mandato rappresentativo – possono essere esercitatati con piena consapevolezza sole se i cittadini possiedono una profonda conoscenza del sistema e soprattutto una coscienza radicata del senso del potere e delle sue funzioni sociali.
In Italia, al contrario, mancano un senso consapevole dello Stato e un’idea di comunità che significa rispetto e condivisione, manca la coesione sociale che permette ad ogni singolo di fidarsi e affidarsi allo Stato e agli altri cittadini. Al contrario è evidentemente diffusa l’idea che il delegare al rappresentante politico il potere attraverso il voto significhi aspettarsi in cambio un aiuto privilegiato.
Perché la convinzione che molti uomini politici hanno dimostrato di avere della politica come affare di interessi privati e personali, è condivisa dalla maggior parte dei cittadini che quegli uomini scelgono in un sistema di tacita connivenza, salvo poi gridare allo scandalo evitando con pertinace incoscienza di assumersi la responsabilità etica, quando non morale, che spetta a chi sceglie, delega, investe altri di un mandato.
Oggi i partiti si affannano a ricercare uomini dalla reputazione incorrotta adottando slogan propagandistici che suonano, a destra come a sinistra, con un’esplicita dichiarazione di onestà. “Scegli me, io sono onesto” oppure “Vota per noi, noi siamo responsabili” sono le risposte della politica al sentimento di antipolitica, ma qualcuno si rende conto che la politica sta ammettendo, in un parossismo di esplicita autodistruzione, che fin qui non è stata onesta, responsabile, affidabile?
In nessun altro Paese, moderno e civile, una cosa del genere sarebbe possibile e accettabile, in Italia costituisce la miglior strategia politica possibile. Uomini nuovi, appoggiati da politici vecchi, in un restyling che risponde a una dilagante quanto superficiale rivolta “popolare”, che si placherà quando i più torneranno ad avere il proprio tornaconto garantito dalla politica.
È accaduto all’indomani di Tangentopoli per cui abbiamo assistito ad un parzialissimo ricambio di persone, grandi proclami di rinnovamento, una realtà che si è fatta peggiore di quella che è andata sostituendo, con la più diffusa connivenza dei cittadini variamente interessati. Accadrà ancora, se quei cittadini che hanno una minima responsabilità della dimensione pubblica non alzano la voce, negando, denunciando, agendo in una pacifica ma inesorabile campagna di bonifica dello spazio pubblico e di riappropriazione reale del proprio futuro e dei propri diritti.