di Tommaso Milani
In un volume di capitale importanza per la comprensione della storia d’Europa degli ultimi settant’anni – Postwar, in italiano Dopoguerra, Mondadori editore – il compianto Tony Judt ha individuato negli anni Settanta l’affermarsi di un “nuovo realismo”. La lunga stagione di prosperità e pace sociale sperimentata in Occidente dal 1945 in poi si chiuse sotto l’urto di problematiche inedite e nuove conflittualità, innescate dalle crisi petrolifere e dall’acutizzarsi dell’inflazione. Ne scaturì un mutamento profondo e duraturo nei valori espressi dall’opinione pubblica: l’ottimismo che aveva contraddistinto la nascita dello Stato sociale fu gradualmente soppiantato da una concezione assai meno irenica e solidaristica dei rapporti fra le classi e le generazioni. Ne beneficiarono a livello elettorale soprattutto quei leader – a cominciare da Margaret Thatcher – che seppero porsi in netta discontinuità con le politiche del passato, proponendo ricette in linea con lo spirito e le esigenze dei tempi.
Anche in Italia il protrarsi della recessione potrebbe avere gettato le basi per una nuova, seppur ancora acerba, stagione di realismo. A riprova di ciò si può citare l’elevata popolarità di cui gode Mario Monti, percepito tuttora come figura autorevole e degna di fiducia, benché abbia imposto una delle più energiche (e perciò dolorose) strette fiscali nella storia della Repubblica. Colpisce, invece, l’incapacità del ceto politico professionale di porsi sulla medesima lunghezza d’onda. L’esistenza stessa di un esecutivo composto da soli ‘tecnici’ e l’ipotesi che l’esperimento venga ripetuto nella prossima legislatura testimoniano la riluttanza dei partiti tradizionali a guidare il Paese in prima persona, muovendosi nel solco tracciato dall’attuale governo.
A cosa si deve questa ritrosia?
Una spiegazione, suggerita dalla public choice theory, potrebbe essere la seguente: i partiti aspirano a innovare ma non sono disposti a sfidare apertamente gruppi d’interesse che costituiscono serbatoi di consenso. Così, ad esempio, un esecutivo tecnico sostenuto dal Partito Democratico ma non organico ad esso potrebbe introdurre norme sfavorevoli a lavoratori del pubblico impiego e sindacati senza significative ripercussioni sulla popolarità del PD. Appoggiando il provvedimento in aula ma prendendone le distanze in pubblico, il PD potrebbe scaricare sul governo e altri partner di coalizione i “costi” derivanti dalla sua approvazione. Se altri partiti, su temi diversi, adottassero una posizione analoga, molti veti incrociati cadrebbero, favorendo l’azione riformatrice dell’esecutivo. Sarebbe una condotta forse ipocrita, ma certo annoverabile fra le “cose” – come ebbe a scrivere privatamente un alto funzionario dell’SPD a Eduard Bernstein – “che si fanno, ma non si dicono”.
Se davvero i partiti politici presenti in Parlamento si avvalessero dello scudo protettivo dei ‘tecnici’ per smantellare la rete di particolarismi che avvolge le istituzioni, si potrebbe dire che essi non hanno abdicato al loro ruolo, ma che anzi esercitano una sorta di guida indiretta, una virtuosa “hidden-hand leadership”. Purtroppo non pare essere questo il caso. Finora i partiti sono stati un freno anziché uno stimolo all’azione del governo Monti. Trincerati in una difesa di corto respiro delle proprie constituencies, incapaci di rinnovarsi attraverso un fisiologico e trasparente ricambio generazionale, non sembrano in grado di partorire nemmeno una riforma elettorale dignitosa, qualcosa di più (e di meglio) di uno striminzito e rabberciato abito cucito su misura per le reciproche esigenze. A cosa si deve un così sonoro fallimento?
Prescindendo da errori e limiti delle singole personalità coinvolte, la sensazione è che sussista un serio, per non dire drammatico, ritardo culturale. Nel corso dell’ultimo decennio la classe politica italiana ha progressivamente reciso i legami con i ceti che ambiva a rappresentare. Insensibile ai processi di trasformazione in atto, isolatasi da uno scenario internazionale quanto mai fluido, non più giovane anagraficamente, essa ha trovato rifugio in un limbo atemporale, calandosi in ruoli predefiniti e stucchevoli. L’anticomunismo di Berlusconi, la politica dei due forni di Casini, le vaste alleanze di Bersani non solo riproducono schemi risalenti agli anni ’70, ma riflettono visioni del Paese incredibilmente datate, ancorate all’eterno ieri. Quale forza politica, fra il 2001 e il 2011, ha saputo proporre e tradurre in atti concreti un modello di crescita economica che non si basasse sull’aumento permanente della spesa pubblica? Una politica di bilancio coerente con l’ingresso nella moneta unica? Un sistema di welfare in linea con le esigenze di una società post-industriale? Un programma per fronteggiare la bassa natalità e l’invecchiamento della popolazione? Una visione coerente di ‘interesse nazionale’ su cui modellare una politica estera? I temi su cui s’interrogavano – e si dividevano – i principali partiti europei trovavano in Italia ben poco spazio. Ben più successo riscuotevano le cosiddette ‘narrazioni’, ossia le auto-rappresentazioni compiacenti e assolutorie con cui i protagonisti della vita pubblica imputavano a rivali e nemici, veri o presunti, il declino italiano. Impermeabili ai dati di fatto, indifferenti alle hegeliane “dure repliche della Storia”, le narrazioni hanno favorito la balcanizzazione dell’elettorato in tribù e fazioni, trasformando la vita pubblica in una recita caotica ma perennemente uguale a se stessa.
Per recuperare la credibilità perduta, i partiti dovrebbero interrompere il decennale divorzio dalla realtà i cui costi – sociali, economici, civili – si rivelano oggi elevati. Scuotersi dal torpore catatonico in cui sono precipitati, tuttavia, non sarà impresa agevole o indolore. Le elezioni del 2013 incombono e l’aggravamento della congiuntura rende accattivanti le sirene della demagogia. Né è scontato che le forze oggi rappresentate in Parlamento si dimostrino le più idonee a raccogliere l’eredità dei tecnici, le più abili nell’individuare soluzioni creative e lungimiranti compatibili con gli enormi vincoli strutturali cui l’Italia è sottoposta. Stiamo vivendo quelli che un antico detto cinese classifica come “tempi interessanti”. A tutto vantaggio della democrazia, sarebbe auspicabile che la transizione verso una stagione di robusto realismo trovasse protagonisti all’altezza del compito, all’interno o all’esterno dei partiti attuali.