di Danilo Breschi

Ogni giorno siamo invasi da notizie sullo status rei publicae della nostra Italia. La cronaca politica pretende di assolutizzare ogni dato presente in nome di quell’eccezionalità e di quell’emergenza che fanno gioco ai media, sempre tesi alla ricerca di scoop e di scandali capaci di rendere la notizia il più vendibile possibile. Ogni evento della nostra politica viene così presentato come novità, e in ogni caso deve seguire le logiche della moda: ciò che oggi tira deve essere riprodotto il maggior numero di volte, finché l’onda dell’opinione va in quella direzione o dimostra di apprezzare quel tipo di notizia. Così è stato negli ultimi anni per i temi della “Casta” e dell’antipolitica, qualcosa già emerso attorno al 1992, tra movimento referendario e Tangentopoli, all’implodere della cosiddetta Prima Repubblica.

Purtroppo o per fortuna, non saprei, la politica italiana presenta una forte vischiosità, nel senso che i mutamenti sono molto lenti, lentissimi, talora impercettibili, talora del tutto inesistenti. Il peso della storia sta dietro la cronaca, ed è questo il compito che spetterebbe ai cosiddetti “intellettuali”, o uomini di studio con spirito civico e attitudine all’impegno civile, disposti a prestare il proprio sapere a vantaggio di una crescita di cittadinanza consapevole e attiva. Senza storia la cronaca politica è miope e, come tale, falsifica o impedisce la messa a fuoco piena e precisa della realtà su cui ogni cittadino è chiamato a giudicare, prima durante e dopo l’esercizio del proprio diritto di voto.

Ci sono problemi che appaiono insolubili, e sono effettivamente complessi ed estremamente difficili da affrontare politicamente, perché hanno radici robuste che affondano nel passato, anche remoto, di una nazione nata e cresciuta secondo determinate condizioni che la scienza storica ha saputo ricostruire nella loro genesi, al netto delle controversie fra le diverse scuole storiografiche e dell’inevitabile uso pubblico del modo di raccontare il passato di un Paese. Rendere edotti i cittadini, lettori e telespettatori di cronaca politica, di quanto pesi la nostra storia sulla nostra politica è un servizio che solitamente era affidato dalla carta stampata all’editoriale. E ancora capita di trovarne di articoli che illuminano in tal senso. Molto minore, per non dire quasi nullo, il contributo dei programmi televisivi, i cosiddetti talk-show, che si propongono di discutere di politica.

L’elemento spettacolare prevale, e sempre più ci si muove dietro il carro della satira, che spesso trasferisce il proprio tono e il proprio stile allo stesso giornalismo politico televisivo, che ne resta indelebilmente impregnato. Quel che conta è piacere per attrarre spettatori e così i ritmi del dibattito penalizzano ogni forma di ragionamento per premiare lo spettacolo, piegato in direzione della messa in scena grottesca, tra urla, strepiti e offese reciproche, con il conduttore che indirizza verso la bagarre fingendo un ruolo di arbitro imparziale. L’effetto finale di tali programmi è quello di alimentare ulteriormente sentimenti di disaffezione nei confronti della politica, ridotta indebitamente alle liti tra esponenti di partiti sempre meno collegati al territorio e ai problemi quotidiani delle popolazioni ivi residenti.

Se dietro la cronaca politica c’è spesso il peso della storia, oltre essa vi è il peso della teoria politica, il più trascurato se non volutamente occultato. Oltre il presente e il contingente vi è qualcosa di permanente pur nel mutare delle condizioni storiche. Ad esempio, la democrazia dell’Ottocento non ha le stesse identiche caratteristiche di quella della seconda metà del Novecento, e questa, a sua volta, è oramai distante dai sistemi politici nei quali viviamo oggigiorno, in piena quarta rivoluzione industriale (la globalizzazione totale più il digitale). Eppure, oltre al senso storico occorre anche avere contezza di cosa sia quella sostanza che ha subìto o continua a subire mutazioni di forma, che poi si riflettono su quella stessa sostanza. Altrimenti detto, ci sono dei presupposti teorici della democrazia che sono anche princìpi, criteri di valore, senza i quali il mutamento della sostanza è tale da dar vita ad una vera e propria altra entità.

C’è sì una democrazia in senso descrittivo, una democrazia per come è nella realtà, ma anche una democrazia in senso prescrittivo, per come dovrebbe essere. Mettere in connessione le due dimensioni è indispensabile per capire sia quel che manca di ideale al nostro presente sia quel che dell’ideale va mutato, o semplicemente aggiornato, alla luce di un reale che esige qualcosa di nuovo o diverso. Perché i sistemi politici sono, o dovrebbero essere, anzitutto al servizio di quella convivenza umana per la cui organizzazione si evoca proprio “la politica”.

In questo senso la democrazia, come più in generale l’intera teoria della politica, oscilla tra utopia e realismo, e non è detto che debbano porsi in negazione l’uno dell’altra. Soprattutto se quella teoria proprio di democrazia intende interessarsi. Dare conto anche di questo non è necessariamente compito della cronaca politica, che comunque fa di tutto per ignorare o rimuovere la questione, ma dovrebbe essere qualcosa di fortemente sentito dall’intellettuale, dall’uomo di studio delle scienze politiche e sociali, che abbia senso di responsabilità civica. Un compito che non sia né un dogma imposto né un vanto esibito, ma una necessità che periodicamente sorge spontanea.

Al di là dell’ambito strettamente politico, c’è poi l’insostenibile leggerezza di una cronaca che parifica, appiattisce e ottunde tutto, per cui questo e quello si equivalgono se solo aiutano ad innalzare l’audience e ad incrementare le richieste delle aziende per l’acquisto di nuove quote negli spazi pubblicitari. E c’è invece la sostenibilissima pesantezza di una cultura che è veicolata dai testi delle “canzonette” o dalle immagini di un film o di un fumetto, una pesantezza che àncora alla realtà e consente di immergersi nelle profondità dell’analisi, o di gettarsi dall’alto della teoria, che per gli antichi Greci corrispondeva a quel vedere con attenzione che suscita domande, e di piombare così con tutto il proprio peso sui fatti e urtarli, sfondarli, bucandone la coltre di ipocrisia e di conformismo. La cronaca sovente banalizza, ora inconsapevolmente, per ignoranza, ora scientemente, per calcolo. Intende divertire e distrarre per meglio veicolare, dunque vendere.

Di nuovo: c’è una leggerezza, quella della cronaca, che appesantisce e inchioda la ragione, ed una pesantezza, quella della cultura critica, che fa poggiare i piedi bene per terra in modo da spiccare meglio, e con più forza, il volo. Una cultura che è poi tanto più critica quanto più è ironica, tale cioè da esprimere idee che violano la censura dei tabù, di cui anche la cronaca è imbevuta. Vengono in mente le parole di Kierkegaard, secondo cui “per il soggetto ironico la realtà data ha perso completamente il suo valore, gli è diventata una forma imperfetta e intralciante ovunque. Per l’altro verso, però, possiede il nuovo. Sa una sola cosa, che il presente non corrisponde all’idea”. C’è una realtà data, messa in scena, allestita “ad arte”, e una realtà che è forse il sinonimo più calzante di verità, quella verità cui bisogna cercare di approssimarsi pur sapendone l’irraggiungibilità piena da parte nostra, esseri mortali e parziali. Di un buon uso dell’ironia, così intesa, occorre servirsi contro l’uniformità e il conformismo che sempre albergano nelle società, pena la dissoluzione di queste ultime.

C’è poi un vuoto di contenuto e c’è un vuoto di speranze in questo dominio contemporaneo della cronaca. La vittima principale sono i più giovani, che la cronaca contribuisce a condannare all’eterno presente di una crisi che si alimenta della sua stessa enunciazione, come un mantra buddista, anche se di quest’ultimo ci manca proprio quella funzione conoscitiva, quell’“essere veicolo o strumento del pensiero e del pensare” che potremo cercare e trovare tra le pieghe della cultura, ora alta ora bassa. La cosiddetta cultura “pop”, dalla musica al cinema alla letteratura d’intrattenimento, fumetti e cartoon compresi, ha plasmato l’immaginario collettivo almeno delle ultime tre o quattro generazioni di donne e uomini nati e cresciuti nelle società occidentali. Questa cultura può e sa dire quel che la cronaca spesso non sa dire, non riesce o non vuol dire, e anzi di proposito nasconde.

C’è una cronaca che offende i principi del vero e del bello, del pudore, il cui senso non viene meno a chi conserva il sentimento della dignità della natura e della condizione umana coltivate da secoli e secoli di cultura occidentale. C’è una cronaca che diseduca, che volgarizza la cittadinanza, ovvero con una mano rende “volgo” afasico e decerebrato quel che con l’altra finge di innalzare e qualificare con l’appellativo di “Gente”, magari con la doppia “g”, proponendo una versione postmoderna e triste della vecchia massima “vox populi, vox Dei”.

C’è una cronaca che deprime, abbrutisce e facilita la circolazione del virus del nichilismo che scioglie i legami, rompe le tradizioni vitali e ne impone di mortifere, spacciandole per trasgressioni. Ne risentono anche la famiglia e i rapporti, da sempre complicati e conflittuali, tra uomo e donna. Si dice che i media siano solo uno specchio, e la cronaca il resoconto di quanto viene specchiato quotidianamente. Quanto e che cosa viene specchiato? Da chi? E perché? E se ci vengono offerti solo specchi, cresce a dismisura il rischio che ci si ponga tutti quanti come Narciso. Preferisco allora la piccola Alice che attraversò lo specchio e provare a raccontare quel che vi trovò.

C’è bisogno di parlare anzitutto ai figli, dir loro che non tutti i padri portano la colpa, che qualcuno ci crede ancora ad un’etica che faccia rima con epica, la grande assente di questi nostri tempi prosciugati di senso e infarciti di notizie che piovono come grandine. Educare è uno sforzo quotidiano per condurre sé stessi fuori da una condizione di afasia e disorientamento, di paralisi del sentimento e della ragione, inchiodati dalla paura o dalla libido. Proporre piccoli e modesti sentieri seminascosti, tra le pieghe della cultura, ora alta ora bassa, per tentare nuove semine, nuovi raccolti. È dietro, oltre e contro questa cronaca che bisognerà provare a scrivere ancora. Almeno finché non saremo sopraffatti da una realtà così caotica e impenetrabile da ammutolire chicchessia.

 

(contributo già apparso su www.danilobreschi.com)

 

Commento (1)

  • crescenzo mancusi
    crescenzo mancusi
    Rispondi

    Accolgo la richiesta per maggiore informazione

Lascia un commento

Your email address will not be published. Required fields are marked (required)